Lo sciopero dei togati
Cartabia, il flop dell’Anm rianima il dibattito

Quando meno te lo aspetti. Quando l’argomento sembra essere sparito dai radar dell’informazione e da quelli dell’opinione pubblica; ecco che a riaccendere la discussione, ci pensano proprio loro: i magistrati. E lo fanno piazzando uno sciopero contro la riforma Cartabia che pare sia stato un flop, anche se l’ANM parla di adesione oltre il 60%. Uno sciopero che sembra una barzelletta. E sì, perché essendo la magistratura il terzo potere dello Stato è suo dovere applicare le leggi, non opporvisi.
Ma con buona pace di qualcuno, il flop mette in evidenza anche le crepe all’interno della magistratura che Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati chiama “generazionali”. Eppure, questa riforma, è un po’ all’acqua di rose, timida e in larga parte insoddisfacente. Lontana da un intervento deciso e coraggioso, che pure gli italiani si attendono da anni. Per questo, si poteva anche fare buon viso a cattivo gioco. E farlo proprio ora con lo scandalo Palamara e le indagini sulla Procura di Milano, che mettono il sistema giustizia sulla graticola.
Ma quelle notti insonni vegliate al lume del rancore, meritano indipendenza. Perché, spiega Santalucia: la riforma spegne il coraggio e solletica un sentimento impiegatizio. Con buona pace degli impiegati. Tradotto in soldoni, mina l’indipendenza e l’autonomia garantite per Costituzione. Un comandamento, quest’ultimo, sventolato ogni qual volta si vuole mettere mano a certe storture, che come dice Carlo Nordio, tentano di correggere “quella autoreferenzialità che li rende incapaci di mettersi nei panni dei cittadini”. Insomma, aggiungiamo noi, quella stessa indipendenza e autonomia troppo spesso utilizzata come clava contro la democrazia.
Eppure, il referendum sulla giustizia, a guardare bene, aveva avuto anche una grossa mano dalla Consulta, che bocciando quelli su eutanasia legale e cannabis, ha minato le possibilità di raggiungere il quorum. Perché a molti, la giustizia interessa solo quando ci si incappa. E sì, forse è anche vero, come dice Letta, che “non è coi referendum che si fa una riforma” perché è in Parlamento che bisogna intervenire, ma almeno è un inizio per mettere mano alle storture di Bonafede e cancellare quella Severino, che più volte ha messo le “manette” agli amministratori locali. E poi, è bene sempre ricordarlo a tutti, i referendum sono uno strumento di democrazia e partecipazione assolutamente contemporaneo. E il referendum sulla giustizia, per dirla con il segretario Maraio “va considerato come un pungolo per migliorare la stessa riforma ora in discussione”.
E dunque, è ora il momento della responsabilità e non quello di incoraggiare tuffi a mare sminuendo il valore di questo appuntamento. E poco importa se da destra questi referendum sono guardati con maggiore attenzione – anche se Matteo Salvini non ne parla quasi più, pare che l’arrivo del taser abbia sfamato la sua fame di giustizia -, su certi temi centrali per il nostro Paese non può esserci pregiudizio. E nei cinque quesiti, ai quali saremo chiamati a dare il nostro sì il 12 giugno, si va dall’abolizione delle firme per le candidature dei togati al Csm alla valutazione sulla professionalità degli stessi, dalla separazione delle carriere tra giudici e pm alla limitazione della carcerazione preventiva, fino alla legge Severino sull’incandidabilità e la decadenza degli eletti condannati. Amen.
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