Partigiano, avvocato, accademico, Carlo Smuraglia, è stato senatore prima del PCI, poi del PD. Comunque la si pensi sui temi affrontati con passione nel corso della sua vita, è impossibile non riconoscergli un attaccamento viscerale ai principi della nostra Costituzione unito ad una grande intelligenza e lucidità di pensiero. Nell’archivio di Radio Radicale, per esempio, ritroviamo un suo intervento di un anno e mezzo fa, quando di anni il Presidente emerito dell’Anpi ne aveva 97, contro quello che definiva il referendum truffa sul taglio dei parlamentari. Lamentava soprattutto la mancanza di dibattito sui media, vitale se si vogliono portare i cittadini ad un voto consapevole. Ci risiamo oggi con il silenzio sui 5 referendum di prossima votazione per almeno avviare una improcrastinabile riforma della giustizia.

Chi si occupa di esecuzione penale e di carcere, il nome di Carlo Smuraglia lo ha sentito pronunciare infinite volte quale padre della buona e giusta legge, la n. 193 del 2000, che prevede importanti agevolazioni contributive per i datori di lavoro che assumono persone detenute. Una legge che, se fosse veramente utilizzata, contribuirebbe a far vivere e non languire (come accade oggi) l’art. 27 della Costituzione. «Cara Bernardini, a te che chiedi di raddoppiare i fondi della legge Smuraglia per incrementare il lavoro in carcere, rispondo che lo scorso anno non sono stati nemmeno spesi tutti quelli stanziati in bilancio!». Rimasi basita quando l’ex capo del Dap Dino Petralia mi diede questa notizia rispondendo ad una delle tante sollecitazioni radicali volte a migliorare le drammatiche condizioni di detenzione.

È incredibile, ma in Italia accade che le nostre imprese, pur in presenza di sgravi fiscali inimmaginabili soprattutto in un periodo di crisi economica come l’attuale, non approfittino dei vantaggi previsti dalla legge. Si dirà: i detenuti non hanno voglia di lavorare, non sono affidabili. Non è così! Ricordo quando incontrai l’ingegner Silvio Scaglia, ex AD di Fastweb, detenuto ingiustamente in carcere quale vittima di uno dei tanti processi finiti nel nulla con la completa assoluzione dell’imputato. Da imprenditore e dirigente d’azienda che di lavoro se ne intendeva, mi disse «qui, reclusi con me, scopro che ci sono tante potenzialità, tanti talenti, persone intelligenti e capaci: se si desse loro l’opportunità di lavorare anziché stare a disperarsi senza fare niente tutto il giorno, io credo che le condizioni di detenzione migliorerebbero molto e queste persone, una volta finito di scontare la pena, non tornerebbero a delinquere». Silvio Scaglia, un uomo di successo internazionale che ha dovuto pagare il prezzo della ingiusta giustizia italiana, la pensava esattamente come il senatore Carlo Smuraglia.

Un altro illuminato manager ha avuto un’idea brillantissima durante i due appena trascorsi anni di pandemia, anni che nelle carceri sono stati devastanti anche in termini di vite umane perse. Davide Rota, AD di Linkem (e da poco di Tiscali), durante il lockdown, con il blocco del commercio internazionale, aveva l’esigenza di rimpiazzare i modem rotti, necessari per i collegamenti veloci alla rete Internet. Trovò subito la disponibilità della bravissima direttrice del carcere di Lecce Rita Russo (ora promossa a Provveditore del Piemonte) e, mentre tutto era fermo, organizzarono la formazione di una ventina di detenuti per il riciclo dei modem. Al termine del corso, 15 di loro furono assunti con un regolare contratto di lavoro rivelandosi bravissimi. Ho avuto modo di vedere con i miei occhi cosa sono capaci di fare, dallo smontaggio, alla igienizzazione fino alla riprogrammazione e all’inscatolamento. Il fatto miracoloso è che ognuno dei 15 “ragazzi” è in grado di svolgere qualsiasi fase della lavorazione. Il “modello Lecce” è stato poi esportato in altri istituti italiani. Lavoro vero, spendibile una volta finita di scontare la pena.

Ma allora, cos’è che blocca il lavoro esterno che le imprese o le cooperative potrebbero portare dentro gli istituti penitenziari? La fotografia ad oggi ci dice che circa duemila detenuti svolgono questo tipo di lavori qualificanti, cioè meno del 4% della popolazione ristretta. Perché? I motivi sono tantissimi, ma occorre tenere presente che ogni penitenziario è una repubblica a sé, nel senso che molto dipende dalla bravura e determinazione del direttore nel ricercare le collaborazioni esterne, dalla disponibilità della polizia penitenziaria e dall’impegno degli educatori. La carenza di personale in ogni settore delle professionalità certo non aiuta. Basti pensare che i direttori, cioè coloro che dovrebbero essere un po’ manager del carcere, sono una categoria in via di estinzione: in Sardegna, su dieci istituti ci sono solo tre direttori titolari.

Il primo scoglio da superare è però quello del sovraffollamento, con migliaia di detenuti vicinissimi al fine pena sui quali è difficile investire, visto che non lo si è fatto prima. Purtroppo, le proposte di Nessuno Tocchi Caino e del Partito Radicale non vengono nemmeno vagliate dalla politica istituzionale italiana. Basterebbe quella della liberazione anticipata speciale, già adottata all’epoca della sentenza Torreggiani, per far “respirare” gli istituti penitenziari e trovare gli spazi fisici necessari per insediare le lavorazioni. Infine, c’è il problema dei problemi in un’amministrazione che storicamente dimostra di non funzionare. Mi riferisco alla mai attuata parte dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 riguardante la costituzione presso ogni circondario di Tribunale dei “Consigli di aiuto sociale” che hanno (avrebbero) come finalità istituzionale proprio quella del reinserimento sociale e lavorativo della persona detenuta.

Si tratterebbe di trovare nel tessuto economico locale gli imprenditori che, risparmiando, intendano investire sugli ultimi, i dimenticati. Tutti ne trarrebbero beneficio anche dal punto di vista della tanto sbandierata sicurezza sociale. Finora solo il Presidente del Tribunale di Palermo, il dott. Antonio Balsamo, ha risposto all’appello e il prossimo 20 giugno si terrà una riunione del costituito Consiglio di aiuto sociale dentro il carcere dell’Ucciardone, alla presenza delle persone detenute. Che sia la volta buona? Spes contra spem, rispondo. Per onorare – non solo a parole – l’indimenticabile senatore Carlo Smuraglia.