Vorrei continuare una galleria ideale di figure decisive del pensiero femminile del ‘900, con la consapevolezza che questo pensiero si rivela per noi oggi il più prezioso. Non parlo di pensatrici “femministe”: né Hannah Arendt,Maria Zambrano Etty HillesumSimone Weil, e neanche Edith Stein, di cui vorrei parlare ora, hanno tematizzato la condizione femminile. Ma in tutte il pensiero aspira non tanto a dominare teoricamente la realtà, a impadronirsene, quanto a comprenderla e accoglierla. In loro capire è sempre anche sentire. Ma soffermiamoci su Edith Stein, ebrea tedesca, monaca cristiana, filosofa (allieva di Husserl) e mistica, nata a Breslavia nel 1891 e morta ad Auschwitz nel 1942. Prima rigorosamente atea, studia a Gottinga e si laurea con Husserl (di cui diventa assistente) con una tesi sull’empatia, vuole partecipare alla Grande Guerra come infermiera volontaria ma resta a casa per la salute gracile (una esperienza simile a quella di Simone Weil: sempre intendono vivere le proprie idee!), e nel 1921 si converte alla fede cattolica.

Si avvicina alla vita di clausura, pregando e insegnando, e studiando in particolare la filosofia tomista, e nel 1932 entra nel monastero carmelitano di Colonia, dove scriverà un saggio che tenta di conciliare la fenomenologia e san Tommaso. Con lo scoppio della guerra ripara nei Paesi Bassi ma verrà catturata insieme alla sorella e internata nel campo di Auschwitz. Il suo è un pensiero complesso, di cui non si può riferire in poche righe (suggerisco le utili introduzoni della studiosa Angela Ales Bello ai suoi volumi, molti dei quali pubblicati da Castelvecchi). Mi limito a sottolineare in lei la originalità dell’applicazione del metodo fenomenologico alla materia religiosa.

Ricordo che quel metodo è basato sulla fiducia nella possibilità di sospendere ogni pregiudizio, e intuire immediatamente l’essenza, il senso delle cose, per far emergere la pura coscienza, e su questo lei è più vicina a Scheler che a Husserl. In questo senso diventa «una evidenza ontologica il fatto che l’essere dell’uomo, come tutto ciò che è finito, rimanda a Dio». Siamo creature finite, che però contengono l’infinito, che sono capaci di immaginarlo, come sanno i teologi e i matematici. Come sapevano Aristotele e san Tommaso non siamo riducibili tout court alla fisicità, ad una sola dimensione: dentro noi coesistono una vita vegetativa, una vita animale e una vita spirituale. Conteniamo più mondi, anche se una modernità appiattita sul positivismo tende a negarlo.

Anche Simone Weil usava il rasoio di Ockham – di una razionalità affilata alla scuola di Alain – per addentrarsi lucidamente nelle questioni del misticismo. Ed entrambe erano giovanissime studentesse dall’intelligenza precoce e acuminata. Stein scrive che l’esistenza umana non è mai ovvia, «non si possiede mai, è sempre un essere ricevuto». Dunque inappropriabile. Come per Zambrano la passività diventa un connotato della nostra condizione: una passività però ricettiva, irradiante. Al centro della sua filosofia troviamo l’empatia (concetto di ardua definizione), l’apertura empatica all’altro, fatta di amore e non di giudizio intellettuale, e fondata sul riconoscimento della comune umanità.

Dove tra l’altro precisa che empatia non significa fusione, identificazione con l’altro ma solo stare presso di lui. Mi viene in mente, per associazione, l’esperienza del dottor Frank Ostaseski, medico e insegnante buddhista, fondatore dello Zen Hospice di San Francisco, che per assistere i malati terminali semplicemente si siede accanto a loro, senza domande e senza suggerire terapie, soltanto facendo loro posto entro di sé, permettendogli di manifestarsi. Ostaseski dice che gli occhi di un morente sono «gli specchi più tersi» che lui abbia incontrato, di fronte ai quali non ci si può nascondere.

Stein identifica, attraverso una mossa inaspettata, la spiritualità con la intersoggettività, con la messa in comune dei pensieri: «Guardo un essere umano negli occhi e il suo sguardo mi risponde… egli è il signore della sua anima e può aprire o chiudere le sue porte». Empatizzando io percepisco il valore dell’altro, percepisco il suo vissuto interiore, e insieme modifico il mio io, però l’altro rimane altro. Non interferisco. Non violo la sua integrità. L’empatia è certo un atto conoscitivo ma, se l’ho intesa bene, tale conoscenza dell’esperienza altrui, lascia sempre un residuo incombusto, che mi sfugge.

Piuttosto mi metto in ascolto e in attesa, disinteressatamente e senza esito garantito. Nel rispetto di questa alterità mai interamente riassorbibile si nasconde forse il nucleo della politica stessa, l’idea di una comunità umana che per Edith Stein è la forma più alta di socialità.