Figlio di un’Italia in rovina, piena di ombre, fu infine assolto
Chi era Flavio Carboni, il “faccendiere” che morendo si porta via i misteri d’Italia
Cercare di capire chi fosse Flavio Carboni, la cui parabola terrena si è conclusa nella notte fra domenica e lunedì, ci porta indietro nel tempo, all’indomani della Liberazione, quando nel corso stesso del suo risalire armato per tre anni dolorosi dal Sud al Nord, si era andato riannodando il coacervo di interessi interclassisti, scosso e reso disuguale, ma non dissolto, dalle vicende della guerra e alla costante ricerca di un’egemonia unificante, che avrebbe retto l’Italia dalla «ricostruzione» del 1943-1944 alla sconfitta, dieci anni dopo, nell’aprile del 1953, della legge elettorale maggioritaria, cosiddetta «legge truffa», a cui conseguì la fine della politica dei governi di centro, sancita al V Congresso nazionale della Dc, del 26-30 giugno 1954.
Una storia, quella della cosiddetta «prima Repubblica», segnata per la reiterazione di «scandali», connaturati all’occupazione del potere da parte della Dc, che non si può fare a meno di ricordare, se si vogliano capire i collegamenti tra il mondo politico italiano e le oscure complicità che agevolarono la resistibile ascesa dell’«impero» sindoniano, la cui rovinosa caduta coinvolse, alla fine, anche il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, oltre che una miriade di scandali e di crisi aziendali, aventi alla base un intreccio perverso tra finanza, violazione sistematica delle regole, corruzione e complicità o connivenza politica, in un Paese nel quale i partiti avevano colonizzato l’industria, le banche, i sindacati, la stampa e larghi settori della cultura. In simile contesto, l’identificazione con lo Stato di funzionari pubblici, inclusi i militari e i servizi segreti, delle stesse forze dell’ordine, delle associazioni di categoria e anche del semplice cittadino non poteva che affievolirsi se non venir meno del tutto; per altro verso, non va ignorato il rapporto organico e funzionale tra criminalità economica e criminalità politica, essendo la prima, in molti casi, a produrre le risorse finanziarie, non soggette a controlli, necessarie per alimentare la seconda.
Vicende come quelle di Roberto Calvi e di Michele Sindona, capaci e in condizione di movimentare enormi somme di denaro, morti nelle circostanze più romanzesche, il primo impiccato sotto un ponte a Londra, il secondo avvelenato in carcere da una tazzina di caffè al cianuro, o come quella dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, stimato professionista assassinato a colpi di pistola, in strada, da un sicario giunto dagli Stati Uniti, le quali se non fossero vere sarebbero giudicate affatto inverosimili, appariranno tutt’altro che eccezionali, sol che guardiamo agli intrecci di affari e agli intrighi di molti protagonisti del mondo della finanza tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Novanta. Anni nel corso dei quali l’economia italiana conquistò il diritto di sedere al tavolo delle nazioni più industrializzate del mondo. Flavio Carboni, insomma, è stato il figlio di questi tempi di disfacimento sociale, politico, economico e morale, nei quali si è trovato a vivere perfettamente a suo agio, avendo avuto la possibilità d’intessere una rete di relazioni. Nato a Sassari il 14 gennaio del 1932, cresciuto a Torralba, ancora giovanissimo diventò portaborse di Giovanni Battista Pitzalis, deputato democristiano di Torralba, figura di spicco al ministero della Pubblica istruzione, vicecapo di gabinetto del ministro Gonella, ottenendo anche un posto al ministero. Poiché quel ruolo gli stava stretto, si lanciò nel mondo degli affari, creando una casa discografica, con modesta fortuna.
Un fallimento fu anche il suo primo grande progetto: la costruzione di una mega-porcilaia a Suni, conclusosi, nonostante alcune potenti sponsorizzazioni, con la perdita di duecento milioni di lire. Per ingraziarsi i favori di alcuni politici democristiani, acquistò, allora, il giornale, che navigava in brutte acque, tanto da fallire nel luglio del 1976, Tuttoquotidiano, creato e abbandonato dall’Eni. Fu negli anni Settanta, tuttavia, che iniziò la sua revanche: intuito che le coste sarde potevano diventare uno straordinario campo d’investimento, cominciò ad acquistare per poche lire terreni agrari destinati a diventare un tesoro una volta trasformati in aree fabbricabili, attraverso le società Isola Rossa spa e Costa dei Corsi nella zona di Trinità d’Agultu e attraverso la Costa delle Ginestre spa a Porto Rotondo. Imprescindibili le buone conoscenze politiche e la reperibilità di adeguati finanziamenti. Definibile, senza tema di smentita, il più famoso tra gli assidui frequentatori di «finanziatori privati» e fruitori del «finanziamento privato» della seconda metà del Novecento, così descrisse nel 1994 la Weltanschauung di questo tipo antropologico: «(..) non ebbi mai a pormi il problema della provenienza del denaro che i “finanziatori privati” … mi erogavano sotto forma di prestito. Oggi, senz’altro, ci si può e deve porre il problema della provenienza dei denari che alimentano il settore del “finanziamento privato”, ma allora tale problema neppure si prospettava.
“Usuraio” era considerato soltanto chi erogava prestiti a persone bisognose, sicché tale non veniva considerato chi “vendeva soldi” a imprenditori i quali, come nel caso mio, ma di moltissime altre persone, ricorrevano ai prestiti per finanziare operazioni speculative. Certo, il “finanziatore privato” teneva in sudditanza chi a lui faceva ricorso, magari si tratteneva i titoli già onorati, esercitava le più svariate forme di pressione per rientrare nelle sue spettanze e di vessazione, ma se capitava che il “finanziatore privato” denunciasse per truffa il debitore, certamente non avveniva il contrario. D’altra parte, la moltiplicazione del denaro per effetto degli interessi era tale da indurre a non sospettare sulla provenienza del denaro che veniva investito nel “finanziamento privato”. Debbo anche aggiungere che il mio rapporto con i “finanziatori privati” non fu mai, all’epoca, particolarmente traumatico: fermo restando che non potevo sottrarmi alla restituzione di tutto il capitale in denaro, per quanto concerne gli interessi, di solito, dopo averne corrisposta una parte in denaro, bastava avere l’accortezza di arrivare al protesto, dimostrando così una situazione di illiquidità, in presenza della quale gli stessi “finanziatori” si risolvevano a ricevere la restante parte del credito in natura, cioè in quote di società immobiliari o proprietà immobiliari, anche perché in tal modo si sentivano imprenditori. Io, pertanto, conseguivo il duplice vantaggio di estinguere i miei debiti e di vendere, magari anche quando il mercato immobiliare era fermo».
Fu, peraltro, tra il marzo del 1980 e il luglio del 1981 che si sviluppò e consolidò il rapporto con Romano Comincioli e con Berlusconi che conobbe personalmente nel marzo del 1980 al Grand Hotel di Roma. L’impegno nel settore immobiliare, non lo distrasse, però, dall’interesse per l’editoria: acquistò il 37,3% delle azioni della Nuova Sardegna messo in vendita dopo il naufragio della Sir di Nino Rovelli; il pacchetto di maggioranza era andato al Gruppo l’Espresso-Repubblica che, con gli anni, avrebbe assorbito il 100% del capitale sociale. Si mosse anche per favorire Silvio Berlusconi. Riferirà, in proposito, al pubblico ministero milanese Dell’Osso l’onorevole Beppe Pisanu, all’epoca influente collaboratore di Benigno Zaccagnini: «Il Carboni si diceva interessato alle televisioni private in Sardegna: ciò in un’ottica di inserimento nella regione del circuito televisivo Canale 5, facente capo al signor Berlusconi di Milano. Il Carboni mi spiegò che il Berlusconi aveva interesse a espandere Canale 5 alla Sardegna, talché lo stesso Carboni si stava interessando per rilevare a tal fine la più importante rete televisiva sarda, Videolina».
Fu nell’estate del 1981 che conobbe il presidente del banco Ambrosiano Roberto Calvi, col quale intrattenne un rapporto molto intenso: Carboni era interessato a ottenere credito dalla banca di Calvi mentre questi aveva un bisogno disperato di tessere rapporti con il Vaticano per salvare la sua banca che rischiava di collassare dentro un buco nero. La situazione precipitò nel giugno del 1982: Calvi, disperato, fuggì e la sua fuga si concluse sotto il ponte dei Frati Neri, a Londra; Carboni lo accompagnò in quest’ultimo viaggio e sarà poi incriminato per omicidio: secondo la tesi dell’accusa, Calvi sarebbe stato ucciso per essersi impadronito di ingenti capitali appartenenti a Cosa Nostra e ad altre organizzazioni criminali. Dopo una lunghissima storia giudiziaria, Flavio Carboni fu assolto con sentenza definitiva. Sopravvissuto per quarant’anni alla morte del banchiere milanese, non sembra che Flavio Carboni sia rimasto con le mani in mano, ma non c’è lo spazio per illuminare questa sua seconda vita.
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