Scheda del processo

L’accusa:
associazione per delinquere transnazionale al fine di evadere dazi doganali sull’importazione di beni verso l’Unione Europea; falsità documentali volte ad indurre in errore i funzionari doganali italiani e corruzione di funzionari doganali filippini per realizzare il contrabbando.

Gli imputati:
amministratori, membri apicali e rappresentanti di aziende italiane, cinesi e filippine, oltre alle stesse società beneficiarie degli illeciti.

Le date:
2006 – iniziano le indagini della Procura di Firenze a seguito di una segnalazione dell’OLAF, Ufficio europeo per la lotta antifrode.
2008 – si dispone il sequestro di beni per circa 15 milioni di euro; contestualmente vengono notificati agli indagati gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari.
2012 – a seguito della richiesta di rinvio a giudizio della Procura, il Giudice per l’Udienza Preliminare di Firenze dichiara il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste con riguardo al reato di associazione per delinquere (le altre accuse cadranno al dibattimento).

Storia del processo

L’inchiesta da cui nasce, nel 2006, la vicenda processuale che trattiamo in questo numero di P.Q.M. deriva da una segnalazione dell’OLAF: per l’Ufficio europeo antifrode, un importante gruppo imprenditoriale italiano sta evadendo i dazi c.d. antidumping, imposti dall’Unione Europea per scoraggiare l’importazione di beni provenienti dalla Cina e prodotti ad un costo notevolmente più basso. Ne nasce un’indagine in Italia. Secondo la Procura di Firenze il gruppo italiano aveva escogitato un sistema per aggirare l’imposta e proseguire l’importazione dalla Cina: i beni ivi prodotti, secondo l’accusa, venivano trasferiti nelle Filippine o in Malesia – Stati esenti dall’applicazione dei dazi antidumping – così che, attraverso falsità documentali e corruzione di funzionari doganali, potessero risultare provenienti da quei Paesi.

Per i P.M. fiorentini il complesso meccanismo, poiché nato in seno al gruppo di imprese italiano, non può che fare di quest’ultimo una vera e propria associazione criminosa. Si imputa allora ai membri delle Società coinvolte il temuto art. 416 c.p., l’associazione per delinquere, oggi punita con la reclusione fino a 7 anni nell’ipotesi più semplice. Ma la Procura di Firenze contesta anche il coinvolgimento di società e soggetti esteri, e dunque aggiunge l’aggravante del reato transnazionale. La pena è così aumentata. La richiesta è di rinvio giudizio per tutti gli imputati.

A pronunciarsi per primo sul merito della vicenda è il Giudice per l’Udienza Preliminare del Tribunale di Firenze che, disattendendo parzialmente la richiesta della Procura, compie un’inaspettata inversione di rotta. Pur rinviando a giudizio per le ipotesi di evasione dei dazi doganali e di corruzione di funzionari stranieri, il Gup affronta di petto il tema se, perché si possa parlare di associazione per delinquere (con le conseguenze ora dette in termini di pena), sia sufficiente che quei reati siano stati compiuti da soggetti che compongono funzioni apicali e direttive nell’ambito di un organigramma societario. Se basti, dunque, constatare l’esistenza di una struttura societaria dietro la commissione di reati, e darle così nuova veste di impresa criminale.
Secondo il Giudice c’è un’unica risposta possibile: l’organizzazione criminale e quella imprenditoriale non sono automaticamente sovrapponibili. La Procura ha – erroneamente – fatto coincidere “la struttura delle società e i vari ruoli assunti all’interno delle stesse dai singoli imputati con la struttura dell’organizzazione criminale. Ma ciò è possibile ipotizzare soltanto nei casi in cui ci si trova di fronte a società appositamente create per commettere delitti, non nelle società e nelle imprese effettivamente esistenti e che svolgono effettivamente attività produttive e commerciali lecite”. Non c’è dubbio che anche all’interno di imprese lecite possa nascere un’associazione per delinquere: in un’azienda di trasporti, ad esempio, può strutturarsi un’organizzazione dedita al traffico di stupefacenti, che sfrutta la circolazione dei mezzi. Ma l’impresa criminale, continua il Giudice, può esistere in seno alla società ed essere come tale punita solo qualora se ne provi l’autonomia strutturale.

Secondo il Giudice per l’Udienza Preliminare di Firenze, quindi, in questa vicenda processuale il gruppo imprenditoriale italiano esiste come entità di per sé lecita, distinta dai componenti che “adottarono la decisione, in un certo momento, di porre in essere condotte illecite e coinvolsero vari dipendenti (la cui partecipazione soggettiva alle attività illecite sarà valutata in dibattimento), nella misura e con le modalità che la situazione in evoluzione richiedeva”. Neppure ci sono gli altri elementi che devono sussistere perché si parli, giuridicamente, di associazione criminale: manca lo scopo di commettere un numero indeterminato di reati per un periodo di tempo indefinito. Qui, invece, i delitti e gli episodi criminosi erano ben individuati dal principio e circoscritti alla durata del dazio antidumping. La conclusione è una: l’associazione per delinquere non c’è. Il fatto non sussiste.

Marianna Caiazza - avvocato penalista

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