Per questo giornale la frontiera del garantismo è invalicabile. Il discorso vale oggi per Daniela Santanché, domani per chiunque altro: politici, imprenditori o cittadini comuni.
Ogni essere umano, di qualunque reato venga accusato, per noi è innocente, fino a quando la Cassazione non ne accerta in via definitiva la colpevolezza. Ed è giusto che continui a fare il suo mestiere (compreso quello di ministro). Non sarebbe neppure il caso di dilungarsi sul tema: è su queste fondamenta che poggia un decente Stato di diritto.

Se in Italia è necessario tornarci su costantemente, è perché da 30 anni e passa l’equilibrio dei poteri su cui regge la nostra democrazia è del tutto saltato. Nei primi anni ‘90 gli assetti politici della cosiddetta Prima Repubblica furono sconvolti da un’inchiesta giudiziaria lievitata grazie ad una stretta alleanza tra i pubblici ministeri di Milano e quattro importanti testate giornalistiche (Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Unità) cui venivano girati gli sviluppi delle inchieste, che un attimo dopo finivano in pasto all’opinione pubblica: se volete farvi un’idea di come è nato il populismo in Italia, andate a rileggervi quelle cronache.

Da allora, l’orribile meccanismo ad orologeria del processo mediatico ha fatto strada, è entrato nella quotidianità, corrompendo le coscienze del cittadino medio, ormai vittima e protagonista al contempo di ogni canea giustizialista. E i politici si sono piegati come fuscelli di fronte all’offensiva congiunta di pubblici ministeri e media. Del tutto incapaci di reagire, anzi pronti a dilaniarsi dentro la gabbia comune in cui sono rinchiusi.

Quando nel mirino finisce la sinistra, la destra partecipa alla caccia; e viceversa, quando è la destra a finire sotto accusa. Così, nello zoo italiano, crescono i poteri delle procure, i giornali diventano veline, la vita pubblica si imbarbarisce. E la politica muore, chiusa nella sua triste gabbia.