L’indagine sulla ‘Ndrangheta in Piemonte
Inchiesta Torino, capolista Pd bloccato perché papà è indagato: è la giustizia dem
Un’inchiesta indiziaria contro una famiglia di imprenditori calabresi e una per peculato e corruzione elettorale che coinvolge storici procacciatori di voti dei democrat piemontesi, ma tutto finisce in mafia e, naturalmente, sui media
Sembra quasi un intreccio tra un’indagine di mafia del procuratore Gratteri in terra di Calabria, una di quelle che poi venivano dimezzate in corso d’opera, e un revival di Mani Pulite milanesi del 1993, questa inchiesta torinese sfociata nell’ordinanza del gip Luca Fidelio. Oltre 1400 pagine, gran parte delle quali dedicate alla dimostrazione dell’esistenza della ‘ndrangheta in Piemonte. Ragionamenti puntigliosi e precise ricerche giurisprudenziali fanno da contorno all’elenco di sentenze già emesse a riprova della fondatezza della tesi di partenza. Sentenze passate in giudicato e altre ancora in itinere.
Di quelle ricordate con i nomi più stravaganti che poi una norma voluta dall’ex ministro Cartabia dovrebbe aver bloccato con un divieto. Parliamo di Malu tempu, Esilio, Bing Bang, Alto Piemonte, Barbarossa, Geenna, Carminius, Cerbero Platinum. Non manca anche quella milanese iniziata dall’ex pm Ilda Boccassini, la più discussa, dal titolo Infinitum. Ogni sentenza irrevocabile, sancisce il giudice, è una fonte di prova, lo dice l’articolo 238 del codice di procedura penale. Il pignolo potrebbe osservare la contraddizione palese di questa norma con il sistema accusatorio, di cui quello italiano è solo pallida imitazione, che impone di formare la prova in aula. Ma del resto questo tipo di processi è anche basato sul reato associativo -in questo caso l’associazione mafiosa- e anche questa è una contraddizione. I soggetti presi di mira in questa ultima inchiesta sono i componenti della famiglia Pasqua. Tutto ruota intorno al sistema di trasporti e di gestione dell’autostrada Torino-Bardonecchia. Lo schema di indagine è quello classico. Oltre alle sentenze, la principale fonte di prova è quella delle intercettazioni telefoniche e ambientali, cui si sono aggiunti pedinamenti e installazioni di apparecchiature gps sulle auto delle persone sospettate. Non manca anche la parola di qualche “pentito”.
Giuseppe Pasqua, che nell’inchiesta ha un ruolo di protagonista, ha un marchio sulla pelle perché non solo è calabrese, ma è pure originario di San Luca, il centro dell’Aspromonte in cui le famiglie Strangio e Nirta sono diventate famose per la strage a Duisburg. E tutti i membri della famiglia Pasqua, secondo l’accusa, inserite nel sistema degli appalti nel torinese, «intimidivano i concorrenti e offrivano protezione a vittime di estorsione, infiltrandosi nell’economia legale del territorio attraverso aziende di edilizia e trasporti che hanno ricevuto, almeno a partire dall’anno 2014, commesse da appaltatori operanti nel settore autostradale e nella realizzazione delle grandi opere per svolgere lavori di manutenzione del manto autostradale e movimento terra in tutta la provincia». Secondo i carabinieri dei Ros e la Dda di Torino, Giuseppe Pasqua era attivo come “capomafia” fin dal 1994. I reati contestati a lui e gli altri indagati posti in custodia cautelare, sono, oltre all’inevitabile 416-bis, riciclaggio, estorsione, ricettazione e detenzione illegale di armi. Fatti elencati e descritti nell’ordinanza del gip. Che però non potrebbero giustificare il tomo di 1400 pagine, se non trasparisse da quelle carte l’ansia di spiegare, quasi di giustificare la necessità di qualificare tutta quanta l’inchiesta come “antimafia”.
C’è l’elenco puntiglioso dei motivi per cui i Pasqua sono da considerare “pericolosi”, come lo sono i componenti delle ‘ndrine. Usano mezzi intimidatori, hanno disponibilità di armi, hanno il controllo del movimento terra e allontanano i concorrenti, mettono in scena atti intimidatori, fruiscono di profitti illeciti, dispongono di contatti e anche parentele con famiglie in Calabria, aiutano i parenti dei detenuti, reiterano nel tempo gli stessi reati. Un elenco preoccupante, che non descrive di sicuro un ambiente rassicurante. Ma il solito pignolo potrebbe chiedersi se questi comportamenti siano o siano stati in tutti questi anni in grado di controllare il territorio piemontese come la ‘ndrangheta ha saputo fare in Calabria. E anche, condizione indispensabile perché si possa parlare di mafia, se siano stati in grado di produrre quell’assoggettamento della comunità di Torino e dintorni pari a quanto è capitato in Aspromonte. Non può bastare qualche intercettazione telefonica in cui si ravvisano minacce. E neanche la buona volontà e lo studio accanito della giurisprudenza.
Se poi qualcuno, soprattutto chi in questi ultimi tre giorni ha letto i giornali e ascoltato radio e tv, voglia domandarsi che cosa c’entri tutto ciò con lo scandalo politico-giudiziario che ha travolto, dopo la Puglia, il partito democratico anche in Piemonte, la risposta non può essere che una: niente, non c’entra niente. I magistrati avrebbero potuto tranquillamente fare due inchieste separate, una sui sospetti di ‘ndrangheta e l’altra su atti di peculato e di corruzione elettorale, tutti da dimostrare. Il trait d’union si chiama Roberto Fantini, è stato posto ai domiciliari (la procura lo voleva in carcere) con l’accusa del reato che non c’è, il concorso esterno in associazione mafiosa. E’ stato fino al 2021 amministratore delegato della Stalfa spa, una controllata del gruppo Sitaf, la società che gestisce la A32 Torino-Bardonecchia. Fantini è l’uomo bifronte dell’inchiesta. Per i suoi rapporti con i Pasqua da una parte e anche con il Pd, che lo aveva collocato all’Orecol, osservatorio regionale sulla trasparenza. E in particolare per la sua amicizia con Salvatore Gallo, politico di lungo corso dai tempi di Bettino Craxi fino allo sbarco nel Pd di Piero Fassino.
Imputato di concorso in peculato con il direttore del personale di Sitaf Salvatore Sergi per aver distribuito ad amici ed elettori di suoi protetti politici sedici tessere autostradali del valore di circa 12 euro ciascuna. E poi di corruzione elettorale per aver trafficato per sbloccare qualche pratica che si era fermata negli anni scorsi a causa del covid. Le utilità? Champagne e la prospettiva di qualche cena. Sarà processato e condannato o Gallo andrà, tra qualche anno, a ingrossare le fila dei tanti politici che hanno riempito le prime pagine dei giornali al momento delle indagini e poi saranno relegati ai trafiletti al momento dell’assoluzione? Vedremo, perché questa parte dell’inchiesta sembra un po’ fragile (anche se la Dda di Torino ha presentato un ricorso contro il diniego opposto dal gip agli arresti domiciliari per Salvatore Gallo). Un danno comunque l’ha già prodotta. L’incolpevole figlio di Gallo, Raffaele, consigliere regionale uscente e capolista alle prossime elezioni, ha dovuto rinunciare alla candidatura. Non è indagato. E anche se lo fosse? Il suo partito, il pd sempre più grillizzato in materia di giustizia, lo ha accantonato, e intanto sta stilando il “codice etico” per i candidati. Per capire il perché, citofonare a Giuseppe Conte.
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