Walter Benjamin diceva che le potenzialità rivoluzionarie di un’opera o di un fatto passato si esprimono pienamente solo in una certa epoca, in un momento propizio in cui si compie la sua “ora della conoscibilità”. Per nessuno ciò è così vero come per Joseph Gabel (1912-2004), nato il 12 luglio di 110 anni fa, il cui pensiero si abbatte come uno choc improvviso sul nostro presente. Autore di un testo fondamentale come La falsa coscienza (1962), il più importante e attendibile studio esplicitamente dedicato alla reificazione, fu uno dei più interessanti sociologi marxiani del Novecento ed ebbe un’influenza profonda sul pensiero di Guy Debord. Fu anche un attento indagatore delle dinamiche del razzismo, del maccartismo, della tortura giudiziaria.

L’intera opera di Gabel è leggibile alla luce di un tragico episodio che accade alla sua famiglia, che egli ricorda nella dedica dell’edizione in inglese de La falsa coscienza: la morte di sua madre ad Auschwitz, nel 1945. Auschwitz può infatti essere inteso come un vero e proprio luogo di reificazione, animato dall’intenzione di togliere agli esseri umani la loro facoltà di totalità concrete e di trasformarli in cose, in numeri. In termini gabeliani, si potrebbe dire che l’universo concentrazionario esprime idealmente un rifiuto assoluto della dialettica e di ciò a cui essa in ultima analisi conduce: il riconoscimento e la libertà. Esponente di un “marxismo aperto”, come lui stesso lo definisce, Gabel è immerso in un orizzonte culturale audace ed eterodosso: c’è ovviamente il Lukács di Storia e coscienza di classe, l’Adorno degli Studi sulla personalità autoritaria, la psichiatria fenomenologica di Eugène Minkowski e Ludwig Binswanger (egli ha anche una formazione psichiatrica), l’assiologia di Eugène Dupréel. E, anche se non è tra i suoi autori di riferimento, si sente in lui una profonda affinità con l’umanesimo di Erich Fromm.

Ne La falsa coscienza i temi della reificazione, dell’alienazione e dell’ideologia vengono sottoposti ad una serrata indagine filosofica, sociologica e psichiatrica, che porta alla luce il rapporto prima misconosciuto che li lega alle strutture della schizofrenia. Scopriamo dunque che certe forme di propaganda politica, di etnocentrismo, di populismo hanno in comune con il linguaggio schizofrenico un numero sorprendente di meccanismi. La prospettiva di Gabel è all’insegna di una critica immanente, che lascia parlare l’oggetto e rifiuta di imporsi dall’esterno su di esso. Il pensiero reificato è per lui soprattutto un pensiero non dialettico, un pensiero cioè che rifiuta di farsi campo di tensioni e così facendo si pietrifica, si dogmatizza, si trasforma in codice etico binario. La dialettica, parafrasando Georges Lapassade, è invece per lui una “logica della libertà”.

Incredibilmente attuali sono le sue riflessioni sul garantismo giuridico, nelle quali sottolinea il carattere reazionario del giustizialismo – che lui definisce “alienazione giudiziaria” – e afferma appassionatamente la funzione progressiva del principio della prescrizione. Questa, secondo lui, contribuisce a rendere la giustizia più dialettica e personalizzante, facendosi inoltre portatrice di un’istanza di temporalità storica. “Per il pensiero totalitario – scrive ne La falsa coscienza – l’attività antistatale è extratemporale al pari dello stato stesso. Quali che siano le sue formulazioni teoriche, è certo che in materia politica la giustizia totalitaria si preoccupa scarsamente di questioni di prescrizione e di non-retroattività.” Secondo Gabel il diritto non è separabile da una certa quota di reificazione, ma esistono degli strumenti “dereificanti” che in qualche modo arginano questa tendenza, prima fra tutti la figura dell’avvocato, da lui associata a quella dello psicoanalista.

Ma l’impressionante attualità del suo pensiero si estende a molte altre questioni. Egli ci dà ad esempio una chiave di lettura per approfondire la psicologia del razzismo andando oltre la mera denuncia. Alla base del comportamento razzista, ci dice Gabel, agisce un processo di essenzializzazione. L’individuo di etnia diversa viene visto non come una “sintesi dialettica di qualità e di difetti”, come lo sono tutti gli esseri umani, ma come un soggetto privo di sfumature, tipizzato, spersonalizzato e dunque trasformato in cosa. La sua eterogeneità viene quindi negata dalla percezione razzista, che proietta su di lui un’immagine caricaturale e pretende di ricondurlo a uno schema sempre ripetibile. Ciò ci mette in guardia dai paradigmi di tipo identitario ed essenzialista oggi così diffusi anche a sinistra, che rischiano di riprodurre a volte consciamente e a volte involontariamente i meccanismi stessi della percezione razzista.

Gabel si sofferma anche sul fenomeno del sociocentrismo (inteso qui in un senso mutuato da Piaget), attraverso il quale i convincimenti egemoni di una certa società vengono considerati come portatori di verità assolute, quasi divine, alle quali le coscienze degli individui debbano necessariamente sottomettersi. Di questa forma di egocentrismo collettivo, lo stesso che nei fascismi induce all’autorepressione del dissenso, egli indaga la funzione delirante e reificazionale. Una nozione che può rivelarsi preziosa in un tempo, come il nostro, nel quale la società – e l’assetto capitalistico che ne è alla base – viene elevata a natura, in cui sono tornate di gran moda le sanzioni sociali e i roghi delle streghe, in cui il pensiero di gruppo minaccia qualsiasi approccio dialogico al dibattito culturale. Tra le espressioni del sociocentrismo vi è anche la cosiddetta “ideologizzazione della sensibilità storica” o “storia riscritta”, che induce a dare della storia un’interpretazione piegata alle convenienze del contesto sociale in cui si vive. Un processo che Gabel definisce “reificazione del tempo” (affine a quella che oggi chiamiamo “cancel culture”) e che ritrova anche nella clinica della schizofrenia. Per spiegarlo fa l’esempio di un generale americano che si sia distinto per una condotta di grande nobiltà e che poi abbia tradito il suo Paese.

Secondo una concezione ideologizzata della storia, il suo tradimento rivela la sua intima natura di traditore. Secondo una lettura dialettica, invece, egli non si è mostrato all’altezza dei successi prima ottenuti. Con un’espressione particolarmente affascinante, Gabel ci invita a cogliere di questo generale la “melodia vitale”, il percorso di vita, a non usare il suo tradimento come lente attraverso cui rileggere la sua vita passata. Inutile dire che ciò nulla ha a che vedere con letture revisionistiche del fascismo (che sin dai suoi esordi ha rivelato la sua natura mortifera), ma anzi offre argomenti per contestarle. Gabel si occupa anche di molti altri temi. Compie ad esempio un’interessante critica dell’aggressività come comportamento antidialettico e, al contrario, allude alla carica rivoluzionaria e dereificante dell’erotismo. Dal suo pensiero radicale, umanistico e libertario potrebbe nascere, domani, una sinistra nuova.