Sono trascorsi venticinque anni da quando Luciano Lama ci ha lasciati, a 75 anni, a seguito di una malattia invalidante che lo aveva confinato in letto assistito dall’affetto dei suoi cari, la moglie, compagna di tutta la vita, delle figlie Claudia e Rossella, e del fedele collaboratore Alfredo Massucci. Quando penso a questi ultimi anni dell’esistenza di Luciano (‘’o capitano, mio capitano, alzati a sentire le campane’’) lo ricordo alto, vigoroso fendere la folla con la sua Peterson tra i denti per raggiungere il tavolo della presidenza o salire sul palco per tenere un comizio. Quando ero segretario generale della Cgil emiliano-romagnola (fu Lama a volermi, benché socialista, in quel ruolo che costituiva la Linea Maginot della Confederazione) mi recavo ovunque nella regione (che poi era anche la sua) fosse attesa la presenza di Lama.

Mi è rimasta impressa la partecipazione di Lama all’inaugurazione della Camera del Lavoro di Piacenza che era stata sottoposta ad un’ampia ristrutturazione. Eravamo all’inizio del mese di luglio 1982, era una domenica. Lama arrivò a metà del pomeriggio da Torino dove si era svolta la VIII Conferenza operaia del Pci (allora il partito organizzava frequentemente iniziative di questo tipo). Il primo impegno fu appunto il taglio del nastro, seguito da un intervento al Comitato direttivo riunito per l’occasione. Fu poi la volta del Consiglio comunale e successivamente del Comitato federale del Pci. Altri due discorsi diversi dal primo e uno dall’altro.

Dopo una rapida cena, Luciano Lama era atteso in Piazza Cavalli, dove, da un’ampia terrazza fu protagonista di un incontro con i lavoratori e i cittadini. Cominciò svolgendo una relazione, poi si passò alle domande dirette e alle risposte. Insomma si fece mezzanotte in una piazza che aveva assorbito il sole per tutto il giorno e che sembrava una sauna a cielo aperto. Finita la manifestazione Lama si alzò e rivolto ai presenti disse: ‘’Adesso io e il mio capo scorta (Domenico Di Bello della Polizia di Stato che anni dopo si incaricò anche della mia tutela) sfidiamo a scopone chiunque ne abbia voglia e se la senta’’. Io tornai a Bologna mentre la partita era cominciata. Per Lama lo scopone scientifico era un rito a cui aveva convertito tutta la famiglia e i più stretti collaboratori. Mi capitò tanti anni prima, in un albergo milanese, di fare coppia con Piero Boni contro Lama e Albertino Masetti (un personaggio epico della Fiom). Fui ricoperto da tanti insulti perché ‘’sparigliavo’’ (giuro che non ho ancora compreso bene di che cosa si trattasse) che da allora ho sempre evitato di avventurarmi nell’avventura di quel gioco.

Della vita sindacale di Luciano Lama si possono individuare alcuni momenti fondamentali: il periodo antecedente alla sua nomina a segretario generale della Cgil nel 1970; il decennio successivo, a sua volta caratterizzato da diverse situazioni; le vicende degli anni ottanta; l’uscita dal sindacato. Del primo periodo abbiamo già parlato: un lavoro paziente, spesso oscuro alla direzione di categorie importanti ma annichilite da rapporti di forza squilibrati con il padronato. Prima alla Filcea, poi alla Fiom, dove rimase pochi anni: non c’è dubbio, però, che Lama seminò quei frutti che, poi, Trentin seppe raccogliere ed investire proficuamente. Giunto in segreteria confederale dopo le dimissioni di Luciano Romagnoli (un leader di grande prestigio a capo della potente Federbraccianti, deceduto prematuramente per una grave malattia), Lama si occupò dell’ufficio sindacale: si chiamava così la branca di lavoro che seguiva i contratti e le vertenze. Condivideva quella responsabilità insieme a Vittorio Foa, un personaggio ingombrante, più anziano di lui, assai brillante ed intuitivo.

Fedele a se stesso, Lama non si tirava indietro davanti alle responsabilità. Gli capitò un infortunio rilevante, nel senso che dovette sperimentare per primo – e con l’anticipo di un trentennio – l’attaccamento dei lavoratori al pensionamento di anzianità, l’istituto che negli ultimi anni del secolo avrebbe fatto tremare i governi e sarebbe divenuto l’obiettivo irrinunciabile per le organizzazioni sindacali e che è tuttora il padre naturale di quota 100.
Per proseguire nel racconto, si deve ricordare che nel 1965 una leggina vagante aveva introdotto, nei regimi privati, il trattamento di anzianità ovvero la possibilità di andare in pensione, a qualunque età, dopo 35 anni di servizio. Si era capito subito che si trattava di un errore clamoroso.

In quei tempi la gente iniziava a lavorare in giovane età (appena terminata la scuola dell’obbligo ovvero le elementari). Era sufficiente fare una banale somma per capire che, nel giro di alcuni decenni, un esercito di cinquantenni avrebbe maturato il diritto alla pensione. Così, nel 1968, in occasione di una trattativa con le confederazioni in materia di previdenza, il Governo aveva fatto una serie di concessioni (la più importante delle quali riguardava l’aggancio della pensione alla retribuzione dell’ultimo periodo di attività lavorativa), ma si era rimangiato il pensionamento anticipato d’anzianità, proponendo di limitarlo, ancora per qualche anno, ai casi in cui l’interessato avesse perduto il posto di lavoro. La delegazione trattante (la Cgil era rappresentata da Lama) aveva aderito all’intesa, ritenendola ragionevole. Tornato in sede, Lama aveva incontrato opinioni diverse. La segreteria decise, allora, di compiere una consultazione delle strutture, mentre in qualche fabbrica del Nord si svolgevano alcuni scioperi spontanei. Il responso (evento raro in quei tempi) fu generalmente negativo. Così Lama si recò a ritirare l’adesione, mentre la Cgil dichiarava da sola lo sciopero generale, che ebbe un notevole successo.

È evidente che la questione di merito non era la ragione prevalente di quel malessere. Negli anni in cui l’istituto del pensionamento di anzianità era stato operante non aveva ancora potuto dispiegare gli effetti nefasti che hanno accompagnato tutta la storia del sistema pensionistico. E non sembra neppure convincente pensare che quei lavoratori giovani (provenienti da un duro processo di immigrazione interna) avessero già in mente il tempo della loro andata in quiescenza. È piuttosto più credibile che soffiassero forti i venti della contestazione che dal maggio francese si erano diffusi in tutta Europa; e, soprattutto, che stesse arrivando l’onda lunga della delusione per l’ultima stagione di rinnovi contrattuali, dalla quale erano arrivati miglioramenti assai modesti, nonostante il richiesto sacrifico di parecchie ore di sciopero.

Comunque andarono le cose, la riforma delle pensioni del 1969 (la legge n. 153) ripristinò il diritto pieno al pensionamento d’anzianità (all’inizio degli anni settanta, addirittura, vennero ulteriormente accorciati i requisiti temporali a favore del pubblico impiego). Quella contestazione e quello sciopero sono rimasti nell’immaginario collettivo dei sindacati, tanto che l’istituto è diventato una sorta di tabù. L’etica politica di quei tempi impose a Lama una sostanziale autocritica, benché avesse ragione. Se, allora, la disciplina del trattamento di anzianità fosse stato ridimensionato, si sarebbero evitati molti guai in seguito, dei quali non ci siamo ancora liberati. La Cgil, però, realizzò, nell’immediato, un buon risultato politico, dal momento che lo sciopero generale fu un successo. Quella vicenda, comunque, non impedì – un altro segno della moralità di quei tempi e di quei personaggi – a Lama di diventare, due anni dopo, segretario generale della Cgil. Ed è a questo punto che merita di essere ricordato il dibattito che contrassegnò l’indicazione di Lama, anziché di Rinaldo Scheda (anch’esso un valoroso dirigente ingiustamente dimenticato) per la successione di Agostino Novella dopo che il congresso di Livorno del 1969 aveva stabilito l’incompatibilità tra cariche sindacali e di partito e mandati elettivi.

Rinaldo Scheda era il responsabile dell’organizzazione e aveva con sé la gran parte dell’apparato; era presumibile allora che toccasse a lui compiere il salto verso la segreteria generale. Nella riunione del Partito in cui, nel 1970, si prese quella decisione fu proprio Novella a proporre Luciano Lama (benché amendoliano) con una significativa motivazione: Lama sapeva tenere con coerenza e determinazione una propria linea, anche in circostanze difficili; mentre Scheda era più influenzabile dal contesto esterno e dalle situazioni contingenti. Su questo punto Lama era inflessibile, come se venisse violata un’etica professionale. Nelle riunioni Lama ascoltava tutti gli interventi in silenzio. Ma se a qualcuno sfuggiva un ‘’i lavoratori dicono……’’, Lama lo interrompeva così: ‘’So cosa dicono i lavoratori. A me interessa conoscere ciò che tu dici a loro’’. In un’assemblea vi fu un dirigente periferico della Fiom che, dalla tribuna, si vantò di aver diretto una vertenza in cui si erano svolte più di 200 ore di sciopero. Nelle conclusioni Luciano lo strapazzò inesorabilmente ricordandogli le ore di lavoro necessarie ad un operaio per recuperare il salario perduto durante quella lotta.

(Fine prima parte)