Dicono (ma alcuni biografi lo negano) che ci siano voluti sei ragazzoni ben piantati per impedire all’imbufalito John Wayne di lanciarsi sul palco per trascinare via Sacheen Littlefeather, giovane apache allora di 27 anni, dal palco del Dorothy Chandler Pavillon di Los Angeles. Era la Notte degli Oscar, 27 marzo 1973, e quella ragazza nata da padre apache e madre bianca la stava rovinando. Il vero guastafeste era in realtà un intoccabile assente sia dal palco che dalla sala: Marlon Brando, considerato il più grade attore della sua generazione, vincitore dell’Oscar per Il Padrino. Non si presentò per ricevere l’ambita statuetta. Al suo posto mandò quella ragazza bellissima in costume tradizionale dei nativi americani.

Sacheen Littlefeather, ovvero Piccola Piuma, avrebbe dovuto leggere una lunga dichiarazione firmata da Brando. L’organizzazione non lo permise. Potè pronunciare solo poche parole coperte dal rumore dei fischi, ma per la verità anche da qualche sonoro applauso. Disse che Brando non poteva accettare “il molto generoso premio” per via di come l’industria del cinema trattava gli indiani d’America in film che continuavano a essere trasmessi a ripetizione in tv. Lo shock fu immenso, difficilmente comprensibile oggi, dopo che il palco degli Academy Awards è stato usato più volte per comizi e dichiarazioni politiche. Allora però non era mai successo.

Per trovare un precedente bisogna tornare indietro di 5 anni, a quella premiazione per la gara dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Città del Messico nel corso della quale senza una parola Tommy Smith e John Carlos, neri, vincitori rispettivamente dell’oro e del bronzo, alzarono il pugno chiuso guantato di nero. Quell’immagine fu di una potenza incredibile, fece il giro del mondo, è rimasta scolpita nel tempo. Da allora nulla del genere si era più ripetuto. Marlon e Sacheen osarono e aprirono la strada. Erano molti, in quegli anni, i nomi d’oro della cultura e dello spettacolo americani che fiancheggiavano i movimenti rivoluzionari, in particolare il Black Panther Party. Feroce e sarcastico, il principe del new journalism Tom Wolfe li inchiodò con un articolo che li scuoiava vivi raccontando il party pieno di bellissima gente organizzato in casa Bernstein nel 1970 per raccogliere fondi a favore del Bpp.

La definizione coniata allora da Wolfe è ancora merce corrente: Radical Chic. Però nessuno ha mai sospettato Marlon Brando di sciccheria radical. Il grande attore si faceva vedere poco, evitava di esporsi non per viltà ma per evitare di rendere il suo impegno, anche involontariamente, materiale da pubblicità facile. Oggi sappiamo che i suoi finanziamenti ai movimenti delle minoranze sono stati silenziosi ma continui e molto corposi. Marlon Brando aveva trasgredito a quella regola di discrezione una sola volta, partecipando in silenzio al funerale di Bobby Hutton, uno dei primi militanti delle Pantere Nere ucciso a dalla polizia a 18 anni. Al termine della cerimonia aveva anche preso la parola al raduno in onore di Lil’ Bobby ma anche in quell’occasione aveva parlato poco: «Non farò un discorso: i bianchi li ascoltate già da 400 anni».

Michael Caine, uno dei presentatori della cerimonia fu molto duro con il collega. Lo accusò di “aver lasciato che una povera ragazza indiana si prendesse i fischi invece di farlo lui stesso”. Aveva torto. Se su quel palco ci fosse stato il grande Marlon, fresco di trionfo nella parte di don Vito Corleone, l’attenzione, gli articoli, il gossip sarebbero stati tutti per lui. I nativi sarebbero stati considerati un particolare secondario. Più tardi, partecipando al Dick Cavett Show, Brando non si dichiarò pentito. C’era una opportunità e andava colta. Il pubblico invece di fischiare e battere i piedi, “avrebbe dovuto avere almeno la cortesia di ascoltare Sacheen”.

Non ci furono solo critiche. Coretta King, moglie del leader dei diritti civili ucciso cinque anni prima, elogiò l’attore. Molti anni dopo Jada Pinkett Smith, al termine di un discorso molto critico nella Notte degli oscar 2016, ammise che era stata ispirata proprio da Piccola Piuma. Hollywood non perdonò. Quella notte degli Oscar non era una delle tante. La crescita dei movimenti aveva messo in crisi Hollywood, incalzata da registi ribelli e indipendenti come il Peter Fonda di Easy Rider. Stretta d’assedio dall’ingordigia del piccolo schermo da un lato e dalla rivolta di una generazione di autori e attori che rifiutava in toto le regole dello studio system, Hollywood se l’era vista brutta. Nel 1973, con il trionfo del Padrino, celebrava la sua rinascita.

Il giorno dopo la protesta Saacheen andò a trovare Brando e qualcuno, da una macchina in corsa, sparò qualche colpo contro l’appartamento. Una fiammata: l’ostracismo dell’industria del cinema fu molto più longevo e fatale. Littlefeather, nata Marie Louise Cruz, era un’attrice. Nel 1969 aveva partecipato all’occupazione dell’isola di Alcatraz da parte dei Nativi Americani e in quell’occasione aveva cambiato il suo nome. Da quel momento, e per tutta la vita, avrebbe cercato di coniugare l’impegno per i diritti degli Indiani d’America e delle minoranze con la carriera d’attrice.

Solo che non ebbe più nessuna carriera. Sull’onda del clamore fu chiamata a ripetizione per interviste, spot pubblicitari, servizi fotografici. Poi fu soffocata col silenzio. Nel giugno scorso Hollywood ha chiesto formalmente e pubblicamente scusa con una lettera firmata dal presidente dell’Academy Award di allora David Rubin: «Gli abusi che hai subito per quella dichiarazione erano ingiusti e ingiustificati. Il peso emotivo che hai dovuto sopportare negli anni e il prezzo pagato dalla tua carriera nella nostra industria sono irreparabili. Troppo a lungo il coraggio di cui hai dato prova non è stato riconosciuto. Per questo presentiamo le nostre scuse più profonde insieme alla nostra più sincera ammirazione». «È come un sogno diventato realtà», commentò Sacheen Littlefeather: «Ci sono voluti appena 50 anni ma noi indiani siamo molto pazienti e dobbiamo mantenere il nostro senso dell’humour. È il nostro modo di sopravvivere». Sacheen è morta ieri a 75 anni. Almeno alcuni dei sogni per cui ha sempre combattuto li ha visti realizzati.