Nel “Si&No” del Riformista spazio alla discussione sulla foto-scandalo della Ferragni: è sintomo di libertà? Fa bene a pubblicarla? Favorevole Jonathan Kashanian, conduttore televisivo ed ex partecipante del Grande Fratello, secondo cui la popolare influencer “ha il sacrosanto diritto di pubblicare tutto ciò che vuole”. Contraria invece la giornalista Mediaset Simona Branchetti che sottolinea: “Quello scatto altro non è che l’emblema di una nuova e ben più subdola schiavitù”.

Qui il commento di Simona Branchetti:

Serviva davvero l’ennesima foto desnuda di Chiara Ferragni? Forse sì, ma solo per scoprire quanto capace di dividere e far discutere, in un tempo in cui le donne -vi stupirò- non si sono mai sentite tanto “incatenate”. Le polemiche su opportunità e scopo di quello scatto rischiano infatti di non cogliere le ragioni malcelate di quella pubblicazione. Ci pensiamo libere, ma quella foto altro non è che l’emblema di una nuova, ben più subdola, schiavitù. Stereotipi e meccanismi non sociali, ma social, ai quali la coscienza collettiva è ormai piegata inconsapevolmente. Negli oltre 30 mila commenti c’è infatti un mondo.

Da Elena Guarnieri e Caterina Collovati, amiche e colleghe che le scrivono, l’una che “la foto le fa tenerezza”, e se davvero la faccia sentire “libera” o, invece, “prigioniera del suo personaggio”, l’altra, che si tratta di “mediocrità”, alla tifoseria di utenti divisi tra insulti e complimenti al suo fondoschiena… inteso in tutti i sensi. Perché, certo, di lato B ne ha avuto la Ferragni: ha costruito una fortuna su un mondo virtuale che le rende milioni in quello reale. Mi è anche sorto il dubbio che lo scatto potesse essere davvero, come sostiene la brava Sabrina Scampini, “un progetto di marketing”. Già, ma quale? Una clinica per la ricostruzione dei glutei? Una linea di perizomi? Ma sino rimasta attonita leggendo la condanna durissima di Nike Rivelli, una donna che da tempo galvanizza i suoi followers con scatti provocatori, dove l’essere solo nuda è quasi un dettaglio.

La Rivelli taccia di “volgarità” l’influencer, e imbastisce una veemente difesa della libertà violata della bimba di 11 anni che si è vista chiudere il profilo dopo aver redarguito mamma Ferragni sull’inutile ostentazione delle sue chiappe, chiedendole che messaggio trasmettesse una foto cosi. Un commento talmente genuino da non essere stato quasi notato fino a quando la madre di Giulia (il nome della bimba) le ha chiuso il profilo perché a 11 anni i bambini non possono maneggiare autonomamente i social. Eppure, le femministe del terzo millennio, quelle che “il corpo è mio e lo gestisco io” condannano la chiusura del profilo della bimba avviando una delle più feroci polemiche degli ultimi tempi tra paladine della libertà e moralizzatori. Senza scomodare filosofi o psicoanalisti, basterebbe ripartire dal messaggio di Giulia per capire dove siamo arrivati, quale genere di distorsione il nuovo specchio di Dorian Grey, Instagram, abbia prodotto nelle nostre menti. Apparire è il nuovo diktat a cui si sacrifica ogni buon gusto e buona educazione.

Una bimba accende un lumicino di saggezza nel buio di una giungla di adulti presi a fotografarsi, sempre più filtrati, nella speranza di aggrapparsi, anche nella vita reale, a giovinezza e bellezza che la vita consuma, ma nessuno se ne accorge. Da quell’album virtuale dove i like gonfiano e sgonfiano il nostro ego Giulia chiede un ritorno alla normalità, che pare scomparsa. Qualcuno le racconti come la Ferragni ha costruito la sua fortuna, invece che ostentarla e basta; le mostri le bellezze degli Uffizi invece che quel capolavoro del suo sedere.

Rita Levi Montalcini diceva che le poche donne che hanno fatto la storia non hanno dovuto mostrare nulla, se non la loro intelligenza: allora forse un’imprenditrice capace come la Ferragni, invece di salire sul palco di Sanremo da neo femminista con la t-shirt “pensati libera”, racconti alle ragazze che la libertà non passa da un corpo nudo di cui siamo saturi, dalla vacuità di parole buttate nell’etere senza senso, ma dalla concretezza del percorso suo e di quelle donne, troppo poche, che ci hanno insegnato chimica, scienza, stelle, politica. Un libro di 30 anni fa (titolo emblematico e contenuto attualissimo: “Il mito della bellezza” di Naomi Wolf) chiede: le donne si sentono libere?

Sfogliandolo, ci si accorge di come il 68 ci abbia liberato dalla prigione domestica ma catapultato in una gabbia invisibile con regole ancor più feroci, fino alle soglie di quello che la Wolf definiva una sorta di “terrorismo estetico”, oggi acuito dai social, che costringe a immolarsi sull’altare della bellezza-giovinezza, a inseguire una ‘bellezza senza difetti’. Una ricerca che opprime e condiziona la libertà. Una Dittatura della Bellezza che fa dell’estetica una prigione, dalla quale cara Chiara, vorremmo davvero finalmente “PENSARCI LIBERE”.

Simona Branchetti - giornalista Mediaset