Mentre il mondo ci crolla addosso, che senso ha continuare a discutere del Festival di Sanremo? E’ una domanda più che comprensibile e la risposta non può essere che dubbiosa. Ma se sui media e sui social l’interesse non accenna a diminuire, non è inutile cercarne le ragioni. Non poco ha sicuramente influito l’annunciata presenza di Zelensky, ma sono stati soprattutto i “monologhi” su importanti temi culturali e politici a portare sullo spettacolo musicale più noto in Italia attenzione, dibattito di idee, e, come sempre, pettegolezzi e divagazioni.

Si è parlato, a questo proposito, di “festival dei diritti”, dell’importanza che rivendicazioni, progetti politici e iniziative di solidarietà contro la violenze a cui stiamo assistendo, vengano portate a conoscenza di milioni di persone, soprattutto ragazze e ragazzi che li ignorano o che, come ha scritto Angela Azzaro su questo giornale, “arrivano a loro distorti, talvolta manipolati, piegati a logiche che sfuggono completamente alla consapevolezza, alla cultura, alle lotte che ci sono dietro.” In particolare, non poteva non attirare curiosità, sorpresa e divergenze di opinione l’intervento di una imprenditrice, blogger nota, come Chiara Ferragni, accompagnata dalla presidente, Antonella Veltri e altre rappresentanti della rete nazionale Di.Re di cui fanno parte molti centri contra la violenza sulle donne.

Tante, e in alcuni casi decisamente divergenti, sono state le reazioni tra femministe, imbarazzante e faticoso esprimersi pubblicamente con sincerità rispetto a tematiche e ad amicizie, pratiche collettive condivise per tanti anni. Io stessa, dopo aver scritto dei miei dubbi e interrogativi su una scelta che ho trovato quanto meno discutibile, ho sentito di dover precisare, per timore di aver ferito donne che stimo e che mi sono care, che il coraggio di confrontare idee, sostenere conflitti, è l’eredità più preziosa che ci ha regalato il femminismo. Quali sono allora le mie riserve e le ragioni per cui non sono riuscita a rallegrarmi di un avvenimento che tocca così profondamente quello che posso considerare l’impegno di una vita? Non dovrebbe farmi piacere che l’associazione nazionale dei centri antiviolenza abbia ricevuto in donazione da Chiara Ferragni il compenso che riceverà come co-conduttrice del Festival, e soprattutto che abbia potuto prendere parola su quel palcoscenico prestigioso?

Non posso dire di non provare interesse per il Festival di Sanremo -non fosse altro che per il ricordo di quando adolescente negli anni cinquanta, dato che non c’era la TV nelle case contadine, si andava a vederlo al bar arrampicati sulle biciclette. Mi è sempre piaciuto il canto e ascoltavo con piacere una madre intonatissima che il giorno dopo già canticchiava le canzoni vincenti. Non posso neanche dire che non amo la performance, quel corpo-teatro che come dice un amico attore e critico teatrale, siamo tutti/e noi. Ma il Festival di Sanremo è un vero teatro, dove si “rappresenta” qualcosa, e dove la “scena” è andata via via cambiando, fino a diventare il sostituto, inevitabilmente ambiguo, a volte grottesco e comunque discutibile, di una politica in evidente declino, e, a differenza del Festival, sempre meno “popolare”.

Di qui alcuni miei dubbi e interrogativi difronte al posto che è stato dato a temi che interessano oggi la politica: la guerra, l’antifascismo, il disagio e il carcere per minorenni, la scuola, la repressione della rivolta delle donne in Iran, la libertà di pensiero negli articoli della Costituzione citati da Benigni, la violenza della cultura patriarcale misogina, l’azione dei centri di accoglienza delle donne maltrattate. Non posso non tenere conto che siamo in un paese dove duecentomila giovani femministe – la rete Nudm -, che riempiono le piazze da anni, non fanno notizia, dove i femminicidi sono ancora casi di cronaca, dove è ancora dominante una cultura fascistoide, dove è passata anni fa una legge sulla violenza sessuale e di genere, che cancellava di fatto l’autonomia dei centri antiviolenza e la cultura femminista da cui provengono.

Mi chiedo che cosa possa restare in mente agli spettatori televisivi, impazienti di ascoltare i loro cantanti preferiti, delle poche parole concesse a donne, interpellate dal conduttore col solo nome, a confronto col lungo monologo di Chiara Ferragni, capace di emozionare anche solo per il fatto di rivolgersi a una se stessa bambina, alle ferite della cultura patriarcale che abitua le donne a vergognarsi dei loro corpi? Per non parlare di un abito che può essere visto come provocatorio solo dove manca la consapevolezza delle costruzioni di genere, o degli stereotipi del maschile e femminile che abbiamo ereditato.

A quanti uomini non piace vedere un corpo nudo femminile giovane e ben fatto? E a quante donne che magari lo hanno desiderato e sognato per sé? Le donne non restano così “essenzialmente corpi”, a cui altri hanno dato forme, identità e ruoli? Non considero l’esposizione del corpo femminile nella sua nudità – così come nel suo nascondimento- un’azione liberatoria. Usare la maternità – come ha fatto l’emancipazionismo del primo Novecento – e oggi la seduzione o l’erotismo come un “requisito” per far riconoscere la libertà delle donne, è una contraddizione che non porta a grandi cambiamenti: non si può pensare di uscire dalla sottomissione al dominio e alla visione maschile del mondo, con un semplice capovolgimento, impugnando come un’arma quelle che sono stati i fondamenti ideologici dell’asservimento: l’ identificazione della donna con il corpo erotico e procreativo.

E inoltre, cosa vuol dire la scritta che campeggiava sull’abito, “Pensati libera”? Molte donne si pensano libere anche quando non lo sono. Importante, come diceva Rossana Rossanda, e come abbiamo detto fin dagli inizi del femminismo negli anni Settanta, è prendere coscienza di tutte le “illibertà” che ci portiamo dentro, così come da tanti pregiudizi antichi, come quello che ci vuole per un verso deboli e bisognose d’amore e per l’altro “salvatrici” del mondo. Come interpretare diversamente il fatto che i monologhi politici confortanti, che abbiamo ascoltato in queste prime sere siano affidati quasi esclusivamente a donne? Non disprezzo la cultura popolare, vengo da lì, ma il Festival di Sanremo sembra essere diventato sempre più il circo mediatico del declino della politica. Il femminismo voleva ripensarla, non ridurla a uno spettacolo, per altro abbastanza avvilente, almeno ai miei occhi.