La recensione
Come liberare le vite messe al lavoro: il saggio di Cristina Morini
Col suo ultimo libro – Vite lavorate. Corpi, valore, resistenza al disamore, Manifestolibri 2022 – Cristina Morini ritorna sul tema della femminilizzazione del lavoro e lo fa con l’apprensione dello sguardo che ha visto lucidamente “l’invivibilità del mondo capitalistico attuale” e, al medesimo tempo, la speranza che proprio da quel “femminile” portato fuori dalle case e diventato “produzione sociale”, possa venire la spinta a interrogarsi sempre più profondamente e radicalmente sulle nostre modalità di vivere nel presente.
Contro la presa sempre più invasiva sul corpo da parte del capitale, divenuto una sorta di “seconda natura” e non un sistema economico transitorio, la via di fuga torna a essere quella indicata dal femminismo come riappropriazione delle risorse vitali, restituzione alla cultura e alla politica di tutto ciò che è stato considerato “altro”, come la sessualità, l’amore, i sentimenti, i sogni, i desideri, esperienze le più universali dell’umano lasciate paradossalmente nel “privato” e oggi divenute merce preziosa per quella che Morini chiama una “economia della interiorità lavorata”. Ma come svincolare le vite messe al lavoro quando è l’individuo stesso a farsi “impresa”, o il capitale a farsi “umano”, quando è il soggetto “che decide di darsi, in modo personale e spontaneo e gratuito”, a farsi obbediente e flessibile nella precarietà, quando sembra che si vada verso un “lavoro emozionale”, capace di tenere insieme quei due “fondamenti della civiltà” che Freud aveva visto divisi e ostili?
L’uscita dal dualismo, che i movimenti non autoritari degli anni Settanta avevano indicato come ricerca di “nessi” che ci sono sempre stati tra poli complementari – natura/cultura, corpo/pensiero, sentimenti/ragione, ecc. -, nel momento in cui si sono modificati i confini che li tenevano separati, l’esito sembra essere un agglomerato informe, sottoposto alla legge del profitto e reso sempre più invisibile per la cancellazione della materialità dei corpi, sostituiti dalla comunicazione virtuale e dalle tecnologie contemporanee. Scrive Cristina Morini: “L’analisi dei percorsi dello sfruttamento contemporaneo e del processo di accumulazione attuali, la lavorizzazione delle vite, la dispotica determinazione del biocapitalismo ad assumere la vita, il sesso e la corporeità come elementi centrali della valorizzazione contemporanea, pongono le donne in primo piano nei percorsi di analisi e di lotta (…) Google dimostra di possedere un potere di tracciamento che i governi si sognano di avere. In secondo luogo, che ne avrà fatto dei miei dati in questi anni? Li ha usati per fare statistiche, mi ha profilata, ha studiato i miei gusti, le mie abitudini, i miei cambiamenti. Ha preso questa merce che io, vivendo, ho prodotto e l’ha venduta. Ho lavorato la mia vita per lui, datore di lavoro, che non mi ha contrattualizzata né riconosciuta, non remunerata e che viene svolta senza intenzionalità né consapevolezza di svolgere un “lavoro” benché essa sia direttamente produttrice di plusvalore”.
La cura e il lavoro domestico, rimasti per secoli invisibili e gratuiti, legati al destino della donna-madre, alla “naturalità” del sacrificio della sua vita per il bene di altri, entrano senza sostanziali cambiamenti nell’ambito del lavoro “produttivo”, della politica, del governo delle cose. A essere messe al lavoro, con gli stessi tratti di precarietà, svalorizzazione, e con lo stesso seguito di solitudine, incertezza, dipendenza, sono le doti ataviche del “femminile”: capacità di dedizione e ascolto, sensibilità, obbedienza, adattabilità. La crisi pandemica, riportando al centro i corpi in tutta la loro fragilità, rimasta a lungo nascosta negli interni di famiglia – malattia, vecchiaia, paura, povertà, morte, ecc. – ha reso ancora più essenziali i ruoli di cura tradizionali che le donne stavano cominciando ad abbandonare o ad affidare al altre donne, per lo più straniere spinte a lasciare i loro paesi per ragioni economiche.
La guerra, venuta al seguito, ha contribuito ulteriormente alla restaurazione di una sempre più vacillante divisione sessuale del lavoro. Prese dentro l’isolamento di lavori autonomi, costrette ad affrontare il disagio e l’infelicità mossi dalla paura e dal disamore, dalla rinuncia al piacere, le donne sembrano ancora una volta incarnare la posizione di vittime sacrificali. Ma, al di là dell’apparente impossibilità a vedere vie di fuga dalla violenza del potere neoliberale, sono ancora una volta i corpi e ciò che hanno conservato, nonostante il lungo assoggettamento, a rinnovare la speranza di una liberazione. Se per Roberto Ciccarelli, citato da Cristina Morini, si tratta di ritornare “all’essenza della forza lavoro, intesa da Marx innanzi tutto come forza “naturale” del corpo” che spiega la produttività del lavoro”, per lei significa riconoscere quel “residuo” di risorse umane che sfugge alla cattura della soggettività da parte capitale. E ancora una volta è il femminismo a diventare un riferimento obbligato, in quanto percorso fondato sul recupero della sessualità e riappropriazione del “senso del corpo”: “Tuttavia, esiste uno scarto che rende possibile un’articolazione della soggettività, non tanto come resistenza alla cattura ma come eccedenza, un residuo che fuoriesce rispetto alla rappresentazione di una cultura prescrittiva (…) qualcosa che sfugge, che rimane fuori, una specificità incorporata che emerge dalla consapevolezza cui il soggetto femminista non è nuovo (…) Il potere non è in grado di catturare completamente la nostra umanità e il nostro bisogno di reciprocità (…) la cura eccede i parametri della razionalità capitalista proprio perché invisibile allo stesso capitalismo, connessa com’è alla vita emozionale.”
Sulla necessità di ripensare la cura, svincolandola da quel retaggio arcaico che ne ha fatto il destino “naturale” delle donne, l’estensione senza limiti della maternità, molto ha pesato sicuramente la pandemia, sia in negativo, come carico lasciato ancora una volta sulle loro spalle, ma anche come apertura verso forme sociali comunitarie ispirate a principi di “amore, compassione e attenzione per altri corpi”. La cura, in quanto “inestimabile” dal punto di vista economico – come scrive Pascale Molinier nel suo libro Care: prendersi cura (Moretti & Vitali 2019) -, è un’esperienza che ci permette di ripensare l’ idea stessa che abbiamo del lavoro, ma anche di “smascherare” il sistema predatorio capitalista nei suoi effetti “depressivi”: impotenza, infelicità, repressione del corpo, dei desideri, dei bisogni, delle passioni. “L’amore – scrive Cristina Morini – è il cavallo di Troia con cui l’eversione si introduce nel necrotico continuum della sopravvivenza”. Sullo sfondo di un’analisi lucidamente attenta sulle contraddizioni di un “femminile” divenuto “simbolo della nostra precarietà di vita”, rimane la domanda di quanta strada le donne debbano ancora percorrere per sottrarsi alla cattura di una maternità diventata “potere di indispensabilità all’altro”, come già scriveva all’inizio del ‘900 Sibilla Aleramo.
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