I nodi attorno al patto per Napoli
Come risanare il debito di Napoli: ci vorrebbero 200 milioni all’anno per 20 anni…
Sono bastati solo pochi giorni dal suo insediamento per capire che il compito del neosindaco Gaetano Manfredi non sarà facile. Innanzitutto perché quel patto per Napoli, alla base della sua candidatura, è ancora solo una promessa. Occorrerebbero a Manfredi più di 200 milioni all’anno (per almeno 20 anni) per coprire l’onere del debito (circa 174 milioni all’anno) e avere un margine per la necessaria ristrutturazione della macchina amministrativa e per far ripartire i servizi pubblici essenziali. Chi possiede un minimo di realismo politico comprende che il patto per Napoli in questo contesto politico resterà solo una promessa.
Il patto è nato debole in quanto è stato sottoscritto solo da una parte politica (PD, M5S, LEU), mentre per avere una realistica attuazione avrebbe dovuto essere sottoscritto da tutte le forze politiche, come risultato di un più grande accordo di solidarietà nazionale. Ed è proprio questo sentimento di solidarietà che manca oggi nel Paese, e in verità manca da trent’anni, dalla fine dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno. Ciò che prevale invece è un principio di concorrenza territoriale che è alla base della riforma del federalismo fiscale. Anche le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono state allocate dal governo, in questa prima fase, secondo un principio competitivo. Un’analisi dell’Ufficio parlamentare di Bilancio rivela che i primi bandi finanziati del Pnrr (700 milioni) destinati agli asili nido non attuano integralmente le condizioni di riequilibrio territoriale, imposte dall’Unione, e cioè il rispetto del vincolo territoriale (almeno il 40% delle risorse al Mezzogiorno) e l’obiettivo di copertura del 33% nei territori con maggior ritardo.
Se il vincolo territoriale è stato rispettato, assegnando il 54,5% delle somme stanziate al Mezzogiorno, l’altro criterio non è stato centrato. Infatti la quota di Comuni assegnatari con un grado di copertura pari a zero è ferma al 27 %, a fronte di richiedenti pari al 31%. I comuni richiedenti che hanno superato l’obiettivo sono il 23,6% e hanno ricevuto il 27,5 % delle risorse. Questa sperequazione è dovuta al modo in cui è stato concepito il bando: tra gli indicatori compare, infatti, la quota di cofinanziamento a carico dell’ente locale, che ovviamente ha avvantaggiato i territori più ricchi. Come mostra il rapporto rimuovendo questo indicatore il risultato sarebbe stato nettamente a favore dei comuni meridionali. Le scelte tecniche del governo sono condizionate dal clima politico in cui prevale il principio di competizione territoriale.
Esistono, tuttavia, dei meccanismi che potrebbero garantire l’assegnazione dei fondi nel rispetto dei vincoli di perequazione territoriale. Per esempio far riferimento in primo luogo al fabbisogno territoriale e attivare i poteri sostitutivi della cabina di regia previsti in caso di ritardo delle amministrazioni locali. In sostanza questi due strumenti potrebbero trasformare un approccio competitivo in una logica di pianificazione degli interventi, l’unico metodo che può garantire una concreta politica di sviluppo. Resta il problema della incapacità progettuale delle amministrazioni locali meridionali, che inficia ogni attività meramente rivendicativa, dalla quale il neosindaco deve restar lontano, per evitare di cadere nell’inutile demagogia a cui ci ha abituato il suo predecessore.
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