Più di tante parole e dei modelli previsionali che saranno presentati a Dubai nella COP 28 sul clima, dal 30 novembre al 12 dicembre, e che rilanceranno ancora un senso disperato di impotenza, basterebbero le immagini a raccontare il tempo finora irreparabilmente perduto, e gli spaventosi sintomi di una grave malattia, la crisi climatica, destinata a progredire se non viene arginata da azioni immediate. Quelle, da choc drammatico, di montagne di ghiaccio girovaganti negli oceani con il loro destino segnato di sciogliersi per fusione. Sono gli iceberg a indicare al mondo che non bastano più le vuote parole di circostanza e nemmeno fissare target irraggiungibili che nessun grande emettitore di CO2 – Usa, Cina, India, Russia, Unione europea, Giappone, che con il 49,2% di popolazione mondiale consumano il 66,4% di combustibili fossili e producono il 67,8% delle emissioni globali di CO2 fossile – si è dimostrato in grado di poter ridurre.

In una Dubai dove si annuncia il record di 70.000 partecipanti da 200 paesi, arriverà a sorpresa anche Papa Francesco che, dopo essere entrato a gamba tesa nella diplomazia climatica dell’Onu nello sprint finale per la firma dell’accordo di Parigi del 15 dicembre del 2015, proverà ad entrare nel vivo di un negoziato sul clima paralizzato da 8 anni di veti incrociati e desolanti insensibilità, per rimettere sui binari giusti la madre di tutte le battaglie. Ma pesano sulla lotta climatica, e molto, anche gli ultimi due angosciosi conflitti diventati globali -l’aggressione Russa all’Ucraina e di Hamas a Israele – con altre tonnellate di CO2 sparate in atmosfera, mentre servirebbe ridurre di almeno 22 giga-tonnellate le emissioni nei prossimi 7 anni, come indica Jim Skea, il fisico scozzese nuovo presidente dell’Interngovernmental Panel on Climate Change dell’Onu, per arginare “la minaccia letale” delle peggiori conseguenze del clima cambiato con il suo corredo mortale di catastrofi e migrazioni mai viste.
Al centro della Conferenza delle Parti ci sarà il tentativo di scongelamento del Global Stocktake, il meccanismo fondamentale inserito nell’Accordo di Parigi che doveva servire a monitorarne l’attuazione e il raggiungimento degli obiettivi concordati, ma miseramente falliti, per non superare a fine secolo la soglia di rischio che allora venne definita a più 1.5°C.. Una linea del fuoco che a Dubai dichiareranno superata. A fine secolo, senza correzioni di rotta, l’aumento della temperatura sarà presentato nel range tra 2,1 e 2,8 °C in più sulla media del periodo preindustriale 1850-1900. Così le annunciate “zero emissioni globali di gas serra al 2030” che invece saranno previste in aumento dell’8,8% rispetto al 2010. E del resto, basta e avanza questo 2023 che sta bruciando ogni record di temperatura e entrerà nella storia come l’anno più caldo mai rilevato, con il 17 e 18 novembre scorsi già sulla soglia inesplorata dei 2°C di aumento termico globale.

Cop28, ghiacciai e nevai sono al minimo storico dalla comparsa dell’umanità

E allora, se le immagini possono dare la scossa, basterebbe mandare in onda le sole scene degli iceberg alla deriva, a partire dal più grande del mondo che dopo essersi staccato dalla costa Antartica nel 1986, dopo essere rimasto arenato e incagliato nel Mare di Weddell, da qualche mese ha ripreso a galleggiare trasportato dalle correnti antartiche e andrà a fondersi nell’Atlantico meridionale. In codice è A23a, a vederlo è un’isola di ghiaccio con superficie di 4.000 km2, quasi 4 volte quella di Roma, e lo spessore di 400 metri. Nel solo 2019, nel solo tratto di mare sulle coste di Terranova e Labrador ribattezzato “Iceberg Alley”, hanno monitorato il passaggio di circa 1.500 iceberg di varie dimensioni dopo i loro distacchi dai ghiacciai della Groenlandia e dall’Artico canadese, nel 2020 se ne sono aggiunti altri 169, nel 2022 ancora 58, e questi giganteschi iceberg girovaghi perdono tra i 1.450 e 2.000 km3 di ghiaccio all’anno con conseguenze sull’ecosistema, sulla circolazione delle possenti correnti oceaniche che mitigano il clima, sulla vita biologica, sul rialzo del livello del mare che impatta anche sulle nostre coste dove si prevedono aumenti di livello tra gli 80 centimetri e un metro entro il 2100 ma con problemi già tra il 2030 e il 2050. Non sono buone notizie.

A Dubai basterebbe aprire questo capitolo del libro del clima con modifiche radicali dei candidi panorami del Novecento. Quanti ghiacciai ci restano? Se nel 1873, i simpatici aspiranti suicidi Phileas Fogg e Passepartout di Jules Gabriel Verne ci avessero invitati a salire a bordo della loro mongolfiera per Il giro del mondo in 80 giorni, avremmo potuto ammirare dall’alto maestose distese di ghiacci in ogni continente, con una miriade di ghiacciai e glacionevati. E oggi? II report 2023 “State of the Cryosphere dell’International Cryosphere Climate Initiative”, indica ghiacciai, nevai, permafrost e banchise polari al loro minimo storico dalla comparsa dell’umanità. Il loro scioglimento a ritmi record è stato geolocalizzato anche dal team di ricerca guidato dall’ETH di Zurigo e dall’Università di Tolosa che verifica dal 2000 il ritiro globale dei 217.175 ghiacciai del mondo rilevando perdite complessive annue da 267 miliardi di tonnellate di ghiaccio, quantità teoricamente sufficiente a sommergere l’intera Svizzera sotto sei metri d’acqua. Si sciolgono più velocemente non solo i ghiacci dell’Alaska e dell’Islanda ma anche quelli delle nostre Alpi, insieme ai ghiacciai sulle alte montagne dal Pamir all’Hindu Kush all’Himalaya. Arretramenti confermati anche dal World Glacier Monitoring Service, e dal Randolph Glacier Inventory che nelle 19 regioni glaciali rilevano 197.654 piattaforme di ghiaccio superiori ad un ettaro, cui si aggiungono piccoli ghiacciai per una superficie globale di ghiacci pari a circa 15 milioni di km2, all’incirca il 10% delle terre emerse, quasi una volta e mezza l’Europa.

Cop28, ridurre di almeno 22 giga-tonnellate le emissioni nei prossimi 7 anni

La verità climatica è nella riduzione delle due tipologie di glaciazione, quella “continentale” della Groenlandia e dell’Antartide, e quella “montana” con anche i nostri ghiacciai alpini che vedono accorciarsi o sparire lingue glaciali, circhi, crinali, permafrost, superfici ghiacciate e nevose. Lo stress termico produce livelli di scioglimenti che spiazzano i glaciologi che avevano collocato questa fase al 2070 nelle loro proiezioni di fine Novecento, non certo al 2023. L’accelerazione ha eroso milioni di anni di costruzioni di ghiacciai e oggi i ghiacci sono meno del 25% in Alaska, meno del 12% in Groenlandia, meno del 10% in Canada e meno 8% nell’Hindu Kush Himalaya. Con un orizzonte preoccupante: se con più 1,5 gradi nel 2100 la previsione era di un terzo dei ghiacciai destinati a diventare acqua, con gli ormai probabili più 2°C saliranno a due terzi.
E in Italia? Dal 20 agosto al 10 settembre 2023, l’ultima spedizione della “Carovana dei Ghiacciai” di Legambiente con partner scientifico il Comitato Glaciologico Italiano, ha verificato impressionanti perdite dei nostri storici “giganti bianchi”: il ghiacciaio valdostano del Rutor ha perso superfici per circa 1,5 km2; il ghiacciaio piemontese del Belvedere si è ridotto del 20% perdendo 60 metri di spessore; il ghiacciaio lombardo di Dosdè Est si è ritirato di oltre 1 km con il 47% della sua superficie fusa alla media di 1,6 ettari all’anno; il ghiacciaio del Mandrone del Trentino-Alto Adige dell’Adamello dal 2015 ha perso 50 ettari pari a 70 campi da calcio. Il confronto con le foto in bianco e nero del secolo scorso è impietoso. Il bosco colonizza suoli un tempo perennemente gelati, e la pietra nuda affiora dove c’era il ghiacciaio. E il rapido ritirarsi di fronti glaciali – monitorati con telerilevamenti da aereo e satellite, tecniche geodetiche e interferometriche, prospezioni geofisiche e perforazioni – non è solo perdita di panorami e paesaggi emozionanti oltreché di importanti riserve di acqua dolce e di economie legate alla neve. Il degrado causa instabilità sui versanti e mette in allarme la Protezione Civile per rischi di frane e slavine, come si è visto sulla Marmolada nel tragico 3 luglio del 2022 con il crollo di seracco del ghiacciaio di Punta Rocca che provocò la valanga da 63.300 m3, con 11 morti. I versanti senza ghiacci diventano pareti anche instabili e franose.

L’escalation della fusione lungo la penisola è impressionante. Gli intrepidi scienziati del Comitato Glaciologico Italiano nel loro primo censimento effettuato dal 1925 al 1927 catalogarono 832 ghiacciai che, come tanti festoni, brillavano al sole tra l’Aiguille Blanche du Peutérey e il Grand Pilier d’Angle, sul versante della Brenva nel cuore del Monte Bianco e in tantissime altre cime ricoperte di candide visioni di bellezza e compattezza. Nel secondo censimento tra il 1957 e il 1958, con più precise strumentazioni, riportarono una superficie totale ancora abbondante, di 530 km2. Ma già nel terzo censimento di fine Novecento identificarono 706 ghiacciai con frammentazioni evidenti e la superficie totale scesa a 482 km2. Oggi, il “Nuovo Catasto dei Ghiacciai Italiani”, curato dall’Università degli Studi di Milano e dal CNR, elenca 903 frammenti di corpi glaciali con 369 km2 di ghiacci, e le ultime tre campagne glaciologiche 2021, 2022 e 2023 hanno verificato scioglimenti record.
Solo tre nostri ghiacciai superano i 10 km2. Quello di Forni in alta Valtellina, che ha perso 9 centimetri di spessore al giorno durante l’ondata di calore nella seconda metà dell’agosto scorso, con una velocità di fusione che nel 2023 è aumentata del 15% sulla media degli anni precedenti, e dalla metà Ottocento ha perso 8,5 km2 di ghiaccio, il 45%; il Miage, nel gruppo valdostano del Monte Bianco di 19 km2; e il complesso sull’Adamello tra Lombardia e Trentino dove la Vedretta del Mandrone oggi misura 13,7 km2 ma nel 2003 erano 17,2 e la fusione costante lo sta portando verso i 10 km2. È lo stesso inesorabile trend della Presanella, del Malavalle sulle Alpi Retiche orientali, della Marmolada, del Macugnaga del gruppo del Monte Rosa e del Lys, con perdite complessive per oltre il 50% della loro estensione, e il 70% negli ultimi 30 anni. E più fondono più indicano l’urgenza di una reazione concreta e veloce.