Tra le tristi notizie di cronaca che ci raggiungono quotidianamente, si riesce ad individuare, talvolta, un barlume di speranza. Mi ha colpito particolarmente la storia di una giovane ragazza del Bangladesh, che vive in Italia e che coltiva il sogno di continuare a studiare e crescere nel nostro Paese. Il suo progetto si è però scontrato con le idee del padre, che aveva già pianificato il suo futuro: il rientro in Bangladesh e un matrimonio combinato contro la volontà della figlioletta ancora non quattordicenne. Il tutto in un contesto che non è solo di prevaricazione psicologica, ma anche di violenza fisica: più volte, infatti, la ragazza e sua madre sono state brutalmente picchiate da quest’uomo.

La testimonianza di integrazione parte da una denuncia

Qualcuno potrebbe chiedere dove sia la speranza in questa terribile storia. Ebbene, la speranza c’è. E c’è anche un’importante testimonianza di integrazione. Sì, perché la madre di questa ragazza, che per inciso non parla neanche la nostra lingua, ha compiuto un gesto che per lei è stato eroico e rivoluzionario. Un gesto che per noi, invece, è – o dovrebbe essere – normale.
Questa donna, infatti, ha denunciato, ha testimoniato e si è ribellata alla violenza di cui era vittima insieme alla figlia.

La libertà riacquisita della 14enne

La giustizia si sta ora occupando dell’uomo accusato di queste violenze. Non sappiamo come andrà a finire per lui, ma sappiamo che la ragazza non è dovuta tornare in Bangladesh per sposare uno sconosciuto scelto da altri per lei. Tornerà invece a scuola, dove vuole restare per coltivare il suo percorso di emancipazione e di integrazione. In una parola: di libertà.
Sarebbe potuto accadere tutto questo, se la giovane non avesse riconosciuto nel Paese che la ospita un’opportunità preziosa per la sua vita? E avrebbe mai trovato la forza, sua madre, di ribellarsi, se non si fosse trovata in Italia, dove la condotta del marito non è tollerata, tanto dalla legge quanto dal senso comune? Io credo proprio di no e mi spingo a dire che è esattamente questa la chiave dell’integrazione: ovvero la tutela dei diritti delle singole persone.

L’integrazione è condividere diritti, non concederli

Non c’è possibilità che gli stranieri che raggiungono il nostro paese possano maturare la condivisione culturale che tutti ci auguriamo, se questi non godono – nei tempi e nei modi opportuni – di tutti i nostri diritti. Ed è già molto difficile così, perché non possiamo nasconderci che altrettante storie di violenza domestica, di prevaricazione e umiliazione della donna, si verificano anche in famiglie italiane.
L’integrazione, in buona sostanza, si può concretizzare solo come una sorta di contagio benigno. Può avvenire solo se, a chi lo merita, garantiamo un’opportunità piena e senza riserve. Perché funzioni, non dobbiamo concedere diritti, ma dobbiamo condividerli.