La riforma della legge sulla cittadinanza sta infiammando il dibattito politico. Al centro della discussione vi è lo ius scholae, che permetterebbe ai figli di immigrati nati in Italia o arrivati prima dei 12 anni di ottenere la cittadinanza al compimento di un ciclo di studi la cui durata è al momento imprecisata. Nonostante la resistenza di alcune forze politiche tenacemente aggrappate al principio dello ius sanguinis, in base al quale la cittadinanza viene trasmessa intergenerazionalmente – cioè si acquisisce nascendo da genitori che a loro volta la possiedono – la controversia è rivelatrice di una esigenza diffusa e non più rinviabile di riflettere sulle forme dell’appartenenza e sui diritti di cittadinanza dentro una società che, di fatto, è una società d’immigrazione.

Ma è anche testimonianza di un problema irrisolto, lasciatoci in eredità da una legislazione che, con la riforma del 1992, aveva scelto di guardare al passato, alla nostra storia di emigrazione invece che in avanti, a un futuro di pacifica convivenza tra persone i cui nomi e cognomi richiamano la loro provenienza da un contesto diverso da quello di inserimento. Così, dopo anni di sostanziale indifferenza per il problema, si comincia finalmente a prendere atto di come la questione della cittadinanza sia cruciale per la convivenza interetnica nel nostro paese, dove le carenze croniche di senso civico fanno il paio con l’esclusione di centinaia di migliaia di persone residenti non solo dai diritti, ma anche dall’espletamento dei doveri associati alla cittadinanza.

Meglio tardi che mai, si potrebbe dire, ma anche in questo caso l’inerzia del legislatore testimonia l’incapacità della politica – di una certa politica, in realtà – di riconoscere che lo scollamento tra la realtà dei processi migratori e le norme restrittive in materia di cittadinanza rischia di rappresentare un fattore strutturale di fragilità civile e di instabilità politica. È ormai anacronistico raffigurare l’identità italiana con lo sguardo rivolto al passato, come a una realtà unificata idealmente da un’identità culturale ancestrale che definisce in modo netto i confini del “noi” e relega i figli degli stranieri alla condizione di figli di un dio minore.

Ora, la condizione di straniero – e a maggior ragione quella di straniero irregolare o clandestino – non è una caratteristica data “per natura”. È l’esito delle scelte legislative che regolano la possibilità d’ingresso e permanenza in un certo paese e delle modalità di ottenerne la cittadinanza in conformità alla cultura, o all’ideologia politica, prevalente. Scelte che però oggi non possono fare a meno di tener conto del fatto che non ci troviamo di fronte a nuovi arrivati, poco integrati nella nostra società e che magari coltivano sentimenti di nostalgia verso la madrepatria dei genitori, ma di figli di stranieri insediati in modo irreversibile, che frequentano alla pari sia la scuola italiana sia i loro coetanei e che trovano nella nostra società i propri riferimenti simbolici e identitari. È proprio la realtà dei giovani costretti a vivere da stranieri nel paese in cui sono venuti alla luce o sono arrivati in tenera età e che molto spesso non hanno più alcun legame con i luoghi d’origine dei loro genitori o dei loro nonni a rendere improcrastinabile la riforma di una legislazione ancora allineata al diritto di sangue. L’impostazione tradizionale era, forse, coerente con un modello migratorio a tempo e scopo determinato, ma oggi che la presenza straniera si è stabilizzata mostra tutti i suoi limiti.

Primo fra tutti, il rischio di accentuare il senso di distanza nei confronti di una società in cui i giovani di origine straniera vivono stabilmente e di diffondere sfiducia ed estraneità, ossia il contrario dell’integrazione da perseguire. Si pensi solo al pericoloso fenomeno delle aggregazioni di strada, le pandillas o baby-gang, che tende a prendere piede soprattutto in questa fascia giovanile, e che ci si illude di arginare soltanto con misure di inasprimento penale. Oppure al rischio di rafforzare la creazione di nicchie etniche autoreferenziali, di comunità separate chiuse nella difesa della propria identità. Si tratta di rischi che il riconoscimento della cittadinanza non è di per sé, naturalmente, in grado di sventare, ma che trovano alimento in una legislazione che non riconosce, neppure simbolicamente, l’appartenenza di questi individui e di queste comunità al nostro paese.

E tuttavia, concedere la cittadinanza a chi frequenta le nostre scuole e studia la lingua, la letteratura, la storia e la geografia del paese in cui vive esattamente come i compagni di banco, autoctoni e dunque italiani a pieno titolo, ha un evidente valore simbolico, perché significa che la “nazione” è il paese di chi ci vive ogni giorno, indipendentemente dalle sue origini. Non sarà un passaporto di integrazione sociale, ma presenta una dimensione psicologica ed emotiva suscettibile di creare un senso di appartenenza a quella comunità nazionale della quale lo straniero si sente parte solo quando diviene un campione dello sport. Oltretutto, è proprio un paese ripiegato demograficamente su se stesso che avrebbe bisogno di valorizzare le energie degli “italiani” nati o cresciuti nel nostro paese, cominciando a declinare l’identità nazionale in direzione del futuro invece che di un passato già da tempo, e irrevocabilmente, alle nostre spalle.

Edoardo Greblo, Luca Taddio

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