Libertà e diritti
Ius scholae, due studenti stranieri su tre sono nati in Italia ma non hanno la cittadinanza: a mancare è il diritto al futuro
Il dibattito sulla cittadinanza alle seconde generazioni di giovani figli di immigrati non deve rimanere un anelito di estate, ma deve diventare presto una conquista di civiltà per il nostro paese. Le chiavi di letture utilizzate dal governatore Panetta al Meeting di Rimini, di matrice demografica-economica, sono sapienti e incontestabili in egual modo e – prima ancora – ha fatto bene Tajani a collocare il tema dello ius scholae nell’agenda politica istituzionale.
Come si ottiene la cittadinanza oggi
Vi è infatti anche una questione di diritti civili, non più procrastinabile, che va oltre le dinamiche che interessano le politics tradizionali e riguarda invece la capacità di un paese di adattare il proprio Stato di diritto, la propria vocazione democratica al corso dei tempi o – meglio ancora – della storia. E l’Italia su questo tema è angosciosamente ferma a 30 anni fa. Cosa altro è questa incapacità di cogliere il portato dell’evoluzione di una società civile se non barbarie? La legge che regola la cittadinanza è datata infatti 5 febbraio 1992 ed è incentrata sullo ius sanguinis (dal latino, “diritto di sangue”): un bambino è italiano se almeno uno dei genitori è italiano. Un bambino nato da genitori stranieri, anche se partorito sul territorio italiano, può chiedere la cittadinanza solo dopo aver compiuto 18 anni e se fino a quel momento abbia risieduto in Italia “legalmente e ininterrottamente”. Secondo la legge italiana devi risiedere continuativamente sul territorio per 10 anni continuativi, basta mancare un giorno e il conteggio ricomincia. Altro requisito richiesto è quello di essere titolare di un reddito minimo per 3 anni consecutivi. Prerogativa che diventa in molti casi vincolo insuperabile e che – come si può facilmente immaginare – rende ancora più improbo il sogno della cittadinanza ai tanti giovani impegnati negli studi, i quali (per status e convenzione universale) solitamente non sono chiamati a produrre reddito ma ad acquisire sapere.
Una legge da riformare
Questa legge è pertanto vetusta, antistorica, assolutamente da riformare. Basti pensare che esclude per diversi anni dalla cittadinanza e dai suoi benefici decine di migliaia di bambini nati e cresciuti in Italia, e legando il fondamento del diritto alla maggiore età, gli nega molti dei diritti civili fruibili con il possesso della cittadinanza. Questo accade ogni giorno nel caso delle centinaia di migliaia di bambini nati in Italia, figli di stranieri, che con il passare degli anni sono diventati giovani adolescenti, ragazze e ragazzi di 10, 14, 16 anni perfettamente integrati a livello socioeconomico nelle quotidiane attività scolastiche, sportive, relazionali, conviviali, che però diventano soggetti diseguali a livello di status civile.
Studenti senza cittadinanza
Cittadini nella sostanza ma non nella forma. In ambito scolastico c’è un dato saliente che certifica questa aporia. È il fenomeno degli “studenti senza cittadinanza”. Due su tre studenti con cittadinanza non italiana sono nati in Italia, sono più del 10% dell’intera popolazione scolastica e si trovano soprattutto nelle scuole del Nord che raccolgono il 65,3% del totale; seguono il Centro con il 22,2% e il Sud con il 12,5%. Lo ius scholae o ius culturae che si voglia (“diritto legato all’istruzione”) che lega le prerogative di cittadinanza al percorso scolastico, rappresenterebbe quindi una storica conquista di civiltà per scardinare un impianto codicistico cristallizzato e novecentesco. Un tornante riformista obbligato, in grado di consentire a tanti giovani cittadini di fatto di godere di un diritto ad oggi ancora negato e – non di meno – consentirebbe anche a tanti di noi, non direttamente coinvolti nella riforma, di potersi professare cittadini di un paese migliore. O semplicemente con ancora un diritto al futuro.
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