La caduta di Damasco segna l’inizio di un nuovo capitolo in Medio Oriente, una pagina bianca tutta da definire. Riguarderà non solo la Siria che nascerà dalle ceneri del regime “laico” di Bashar Al Assad guidata da quelli che vengono impropriamente definiti “ribelli”, ma anche il gioco delle potenze regionali che danzano in torno alla carcassa del vecchio stato dominato per cinquant’anni dal clan alauita degli Assad, e che ora è in mano ad una milizia armata ridenominata Hayat Tahrīr al-Shām “Organizzazione per la liberazione del Levante”. Al suo interno l’Organizzazione contiene miliziani di varia provenienza, con una fetta rilevante e maggioritaria di jihadisti, in passato legati all’Isis e poi ad Al Qaeda, per poi abiurare per bocca del loro stesso leader Abū Muḥammad al-Jawlānī l’idea della jihad globale, per assumere un’immagine accettabile agli occhi del mondo e dell’Occidente.

Lo scenario

A poche ore dalla conquista della capitale della fu Siria, è presto per conoscere la verità e la realtà sul nuovo regime in formazione, e sul ruolo che gli sponsor alle spalle di esso avranno, su tutti quella Turchia di Erdoğan che con un piede sta nella Nato e con l’altro dà sfogo alla sua natura imperiale occupando e rioccupando tutte quelle aree che furono parte o non riuscirono ad esserlo dell’impero ottomano. Uno scenario al momento troppo confusionario per tracciare conclusioni che potrebbero essere repentinamente smentite dagli eventi in corso. Del resto viviamo l’epoca della storia in atto, ed è difficile trarre dalla cronaca delle definizioni assolute che spesso richiedono interi lustri per giungere ad una definitiva chiarificazione.

L’arrivo di Trump

Di sicuro lo scenario sarà più chiaro, o almeno lo si spera, il 20 gennaio, quando Donald Trump presterà giuramento e rientrerà alla Casa Bianca, trovando un “mundus furiosus” in cui cimentarsi. Sembra che il destino dei presidenti isolazionisti o presunti tali – perché sull’isolazionismo americano potrebbero essere aperte svariate parentesi – sia quello di trovarsi invischiati in un crescendo di focolai che li obbligano a posporre quel disimpegno tanto agognato. Trump conosce bene la situazione siriana, teatro in cui la sua amministrazione concentrò gli sforzi con curdi e de relato russi e esercito regolare di Assad per distruggere l’Isis su cui l’amministrazione Obama aveva mostrato un ventre più che molle, commettendo errori puerili che hanno posto gli Stati Uniti in grande difficoltà. Ma i tagliagole dell’Isis vestiti di nero, non erano il nemico di qualcuno, ma di tutti, e tutti hanno gioito nella loro distruzione, che fosse Putin o Trump l’esecutore della missione non importava a nessuno: ciò che contava era annientare un’organizzazione terroristica che si era trasformata in Stato, strappando territori a Siria e Iraq e che da quella roccaforte inviava, addestrava e indottrinava adepti pronti a insanguinare l’Occidente. Erano gli anni della resistenza curda e della Turchia che da paese Nato faceva affari con i tagliagole vestiti di nero nell’indifferenza generale. Ma i tempi sono cambiati, e la guerra mondiale a pezzi prende forma lentamente. Trump non ha perso tempo e alla vigilia della caduta di Damasco, già annunciata dal Profeta Isaia come si tende a ricordare negli ultimi giorni, ha scritto su X “La Siria è un caos ma non è un paese amico e gli Stati Uniti non devono averci nulla a che fare. Non è una lotta nostra. Non facciamoci coinvolgere”, opinione sorprendentemente condivisa dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale e voce dell’Amministrazione Biden Jake Sullivan che si è detto “in vigoroso accordo con Trump”. Ma Trump non si è limitato a dire che la Siria non è affare degli americani e che i tempi in cui facevamo gli sceriffi del mondo è finito, ma ha chiosato su Putin, l’interlocutore con cui dal 20 gennaio si troverà ad affrontare la luna trattativa sull’Ucraina.

Per il 47° Presidente eletto degli Stati Uniti, Putin “ha perso 600 soldati in Ucraina” e non sarebbe sato in grado di fermare l’avanzata dei ribelli in Siria, cosa che oggi dopo la caduta di Damasco possiamo dare per certa. Benché le cose in Ucraina ai russi non vadano male, ma il costo per Mosca è altissimo, tanto che l’apporto degli alleati è determinante. In più la Siria è il simbolo dell’indebolimento dell’asse Russia-Iran-Hezbollah, duramente colpito negli ultimi mesi. Senza dimenticare che nella partita c’è Israele, attore cruciale nell’indebolimento dell’Iran e di Hezbollah. Di certo l’intenzione di The Donald è quella di restare fuori dalla Siria, ma può dirlo oggi, e forse non potrà ribadirlo dopo l’insediamento. Perché la Siria è una scacchiera con tanti giocatori intenzionati a muovere le proprie pedine, in mezzo a due conflitti in atto, lontani dal definirsi.

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Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.