"Erdogan ha garantito che al-Jawlani non è un nuovo tagliagole"
Varvelli: “L’Europa dialoghi con la Turchia per moderare i ribelli ed evitare la disfatta”
«La crisi di Damasco ha un perdente e un vincitore: Putin ed Erdoğan». Arturo Varvelli, Direttore dello European Council on Foreign Relations – Roma, è netto nello stabilire il risultato di questa nuova partita mediorientale. «D’altra parte, il futuro non è roseo per la Siria post-Assad».
Partiamo da Assad, appunto. È la fine di una dittatura?
«Sicuramente. Il laicismo con cui si era presentato Bashar al-Assad, quasi venticinque anni fa ormai, all’inizio della sua presidenza, fin dal 2011 si è dimostrato essere di facciata. La violenza e il settarismo hanno caratterizzato il suo potere. Con questo stesso comportamento poi, ha contribuito a far sorgere Daesh in Siria. Ha preferito combattere i ribelli secolaristi, lasciando terreno ai jihadisti, vedendovi un nemico utile per la conservazione del suo potere, contro il quale la comunità internazionale gli avrebbe concesso una garanzia di sopravvivenza. Così non è stato».
E ora?
«Ora per la Siria si aprono delle opzioni che già conosciamo. Iraq e Libia sono modelli di regime change già visti in Medio Oriente negli ultimi vent’anni. I miliziani che prendono le armi è molto difficile che poi le depositino senza un incentivo importante. Per questo un governo di transizione sarà difficile da raggiungere».
A chi tocca giocare adesso?
«La Turchia ha spalleggiato Hts (Hayat Tahrir al-Sham, la milizia che, al comando di Abu Muhammad al-Jawlani, ha guidato la caduta di Assad, ndr). Ora, vorrebbe che i vincitori sul campo si trasformassero in un’organizzazione politica, capace di costruire un governo di unità nazionale, il più ampio possibile, inclusivo perfino dei sopravvissuti del regime, quindi alawiti, ma anche sciiti e curdi».
E la Russia? Qual è il destino del suo pied à terre nel Mediterraneo?
«Mosca la grande sconfitta di questi fatti. Insieme al mondo sciita, ovviamente. Quanto è un monito per i simpatizzanti di Vladimir Putin sparsi nel mondo. Un regime autoritario e sanguinario, sicuro di avere le spalle coperte grazie al sostegno del Cremlino, deve rendersi conto che, in realtà, quest’ultimo è concentrato sull’Ucraina. E che non ha la minima intenzione di farsi distrarre da altre crisi».
Tuttavia, il disimpegno in Siria non può rendere disponibili nuove forze da mandare a combattere altrove?
«Questo è vero per quel che riguarda la guerra contro Kyiv. Al contrario, osservando le risorse dispiegate in questi anni in altri quadranti, in Medio Oriente e Africa, ci accorgiamo che Mosca è in overstratching. Il suo impegno strategico è andato ampiamente oltre le sue disponibilità».
Questo significa che la Russia si ritirerà dal Mediterraneo?
«No. Questo significa che, pur mantenendo l’attenzione rivolta all’Ucraina, la Russia cercherà, da un lato, di salvaguardare le basi in Siria, dall’altro, di destinare alcune risorse altrove. Meglio dov’è già operativa».
Per esempio?
«Ovviamente in Libia. Già in uso come piattaforma logistica verso l’Africa, ma anche utile per destabilizzare il Mediterraneo. Quindi l’Occidente».
Tutto questo cosa comporta l’Europa?
«Comporta che prendiamo atto che Mosca può perdere. Conoscendo però i russi, non si rassegneranno a un loro ruolo secondario. Per esempio in Siria. Il pragmatismo di al-Jawlani potrebbe tornare comodo anche a Putin, che cercherà di aver voce in capitolo nella ricostruzione del Paese».
Ma questo significa un nuovo rapporto Europa-Turchia?
«L’Ue dovrebbe lavorare con la Turchia, che esercita un’influenza sui ribelli, per intensificare l’impegno a favore di un approccio inclusivo. Va strutturata una offerta ai curdi siriani per un percorso politico verso l’integrazione all’interno di nuove strutture statali. Queste dovrebbe rispondere alle loro esigenze e anche alle preoccupazioni turche sull’autonomia curda. Gli europei poi possono anche cercare di incentivare la moderazione di Hts, anche attraverso un impegno diretto e l’esenzione dalle sanzioni se l’approccio inclusivo proseguirà e avrà successo».
Invece, in termini di difesa comune e controllo del Mediterraneo, cosa cambia per noi?
«In realtà non molto. C’è la percezione che la minaccia esistenziale venga dal conflitto ucraino. Del resto, in Medio Oriente, l’Europa non ha toccato palla».
Quindi, per un riequilibro del Medio Oriente, siamo nelle mani di Erdoğan?
«Mi permetto una provocazione. In questi anni, Ankara si è accollata il lavoro sporco. In Libia, ha impedito al generale Haftar, sostenuto da Putin, di prendere Tripoli. Oggi, tramite Hts, ha abbattuto il regime siriano. Ha garantito che al-Jawlani non è un nuovo tagliagole. Questo non ha impedito che Usa e Israele prendessero le loro misure. D’altra parte, è stata Ankara, da sempre cane sciolto della Nato, a dare il là a questa offensiva contro l’asse del male».
Turchia vuol dire Alleanza atlantica, appunto. Cosa ci guadagna?
«Di fronte a queste crisi, mi vien da dire che la Nato abbia un futuro. Già il fatto di aver scelto Mark Rutte, come Segretario generale, è stato un gesto positivo. L’ex premier olandese è un liberale-conservatore, di indole dialogante. Tratta con von der Leyen e Trump. È una buona cinghia di trasmissione tra la Bruxelles europea e quella atlantica. E se l’Ue darà segnali di voler contribuire al discorso della difesa comune, credo la Nato potrà trovare un nuovo ruolo, strategico e centrale. Pur con le differenze con Washington che vuole concentrarsi sulla Cina».
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