Dario D’Ambrosi è uno dei più importanti artisti d’avanguardia italiani, impegnato nel sociale e creatore del movimento teatrale a sostegno della disabilità psichica e fisica chiamato Teatro Patologico, che accoglie ogni anno decine di ragazzi con gravi disabilità, dando sostegno alle famiglie e organizzando straordinarie esperienze interattive di teatro terapia.

Raccontaci la tua storia.
«Vengo da una famiglia di meridionali trapiantati al nord, da giovanissimo entro nelle giovanili del Milan pur essendo un interista sfegatato e ho la fortuna di giocare con gente come Collovati, Baresi…».

Bhé, gente di un certo peso… E come sei passato quindi dal campo alla cura del disagio psichico?
«Dallo stadio di San Siro finisco nel manicomio milanese Paolo Pini per problematiche legate al percorso familiare, faccio questa esperienza in ospedale e subito dopo inizio un corso di teatro, che avevo sempre considerato una forma d’arte noiosissima».

Io provengo da un’esperienza radicale e nel 1979 si parlava molto di Basaglia, figura fondamentale che ha dedicato la vita all’abolizione dei manicomi e so che tu hai lavorato anche con lui.
«Ho conosciuto Franco e ne ho portato avanti le idee. Sono convinto che se fosse vivo e avesse visto il lavoro che facciamo col Teatro Patologico vi avrebbe probabilmente ritrovato la conclusione perfetta della sua legge 180; l’anno prossimo saranno cento anni dalla sua nascita e per questo a gennaio 2024 andrò col teatro a rappresentare l’Italia a Santiago del Cile, poi Buenos Aires, Cordoba, Bogotà e Caracas».

Arriviamo al Teatro Patologico.
«Il teatro nasce negli anni 80, dopo i tre mesi al Paolo Pini, un’esperienza violenta, difficile che mi ha arricchito tantissimo perché dal mondo dorato del calcio ritrovarsi sbattuti dentro un ospedale psichiatrico a confrontarsi con le patologie psichiche è stato un trauma molto forte. Uscito da lì, come diceva l’amico del Teatro Patologico David Sassoli che per migliorare la società bisogna partire dai più deboli, inizio a scrivere spettacoli sulle cartelle cliniche dei malati conosciuti in manicomio e un giornalista che vide una mia performance disse di aver assistito a qualcosa di nuovo e straordinario, definendolo appunto teatro patologico, da cui ho preso il marchio».

Che rapporto si instaura tra te, i ragazzi e le loro famiglie?
«Un rapporto soprattutto di fiducia. Quando i ragazzi e le loro famiglie vengono da noi arrivano distrutti, in uno stato quasi catatonico perché la preoccupazione principale è tenerli calmi. Il lavoro che faccio va un po’ contro la mentalità delle famiglie stesse e degli psichiatri, mi concentro sulle paure, sui comportamenti violenti, sulle schizofrenie, facendo interpretare loro dei ruoli e conoscere i momenti drammatici delle loro sofferenze».

A 19 anni ti trasferisci a New York, dove incontri Ellen Steward, fondatrice del Caffè La Mama, che ti fa esordire a teatro con il monologo Tutti non ci sono, che resterà in cartellone per mesi. Siamo alla fine degli anni ’70 e il Caffè La Mama rappresenta il laboratorio artistico all’avanguardia per eccellenza, è il punto d’incontro di artisti quali Robert De Niro, Andy Wharol, Lou Reed, Pina Bausch e tanti altri. Che esperienza è stata per te?
«Mi ha insegnato tantissimo. Capisco solo dopo di aver messo piede sul palcoscenico di uno dei teatri più importanti al mondo. In Tutti non ci sono raccontavo la storia e le difficoltà di un malato di mente che usciva dal manicomio. In poco tempo lo spettacolo diventa cult, ricordo file chilometriche dopo una settimana, vennero Spike Lee, Jim Jarmusch, Andy Wharol tre volte. Era stranissimo per me perché recitavo in italiano e né io né Ellen Stewart capivamo le ragioni di quel successo. Evidentemente la forza stava tutta nell’improvvisazione in mezzo al pubblico, la gente si sentiva coinvolta nella performance. All’inizio aveva paura di questo malato che interagiva ma poi, piano piano, si affezionava, si dispiaceva e si angosciava quando questo malato veniva lobotomizzato e in qualche modo si distaccava dal rapporto con le persone».

Il 2016, credo, rappresenta un po’ l’apice di tutto il tuo lavoro, con la fondazione del primo corso universitario al mondo di “Teatro Integrato dell’Emozione” insieme all’Università “Tor Vergata” e al Dipartimento di Psichiatria, un percorso di studi interamente rivolto a persone con disabilità fisica e psichica. Noi italiani abbiamo sempre la tendenza a fustigarci però poi qui siamo di fronte a un primato mondiale di cui andare fieri, non trovi?
«Quando ho presentato il corso alle Nazioni Unite ho ricordato che così come siamo stati i primi a chiudere i manicomi siamo anche i primi nella creazione di un corso universitario per questi ragazzi. Rinnovo l’appello alla Ministra dell’Università, che ci ha promesso di riconoscere ufficialmente questo corso, perché ciò consentirebbe anche ad altre università italiane di replicarlo. Ricordiamo sempre che quando sta bene uno di questi ragazzi è tutta la sua famiglia a stare bene, oltre al condominio e il quartiere in cui vive».

Anche perché questo tipo di attività consente quantomeno un alleggerimento nella somministrazione di farmaci che non dico siano devastanti ma sicuramente invadenti nella vita di questi ragazzi.
«Io vedo arrivare questi genitori distrutti, vedo i volti che piangono dalla mattina alla sera. Dopo poco tempo li rivedo a teatro sorridenti mentre mi dicono “non lo so se mio figlio o mia figlia diventerà un attore ma ti posso assicurare che da quando frequenta il Teatro Patologico noi siamo tornati a dormire la notte”. Riuscire a diminuire il dosaggio degli psicofarmaci assunti da questi ragazzi è un obiettivo importantissimo da raggiungere».

I tuoi spettacoli hanno fatto il giro del mondo, New York, Boston, Chicago, Cleveland, Los Angeles, Detroit e, in Europa, a Barcellona, Amsterdam, Monaco, Londra, Stoccolma, Bruxelles. Hai ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali. Il direttore editoriale Matteo Renzi mi ha raccontato che sei andato anche alla Leopolda. Quali sono stati i momenti più “alti” da questo punto di vista?
«Hai dimenticato Tokyo e Johannesburg, San Paolo e Rio… Giusto per completare tutti i continenti! Noi italiani abbiamo mille difetti ma sulla disabilità stiamo esportando un messaggio rivoluzionario. In ogni posto del mondo vado a conoscere la realtà degli ospedali psichiatrici e la situazione è davvero drammatica. Pensa che per l’ultimo spettacolo, a Friburgo, in Germania – non San Paolo o Johannesburg – ho scoperto che tengono ancora i ragazzi disabili in edifici staccati dai ragazzi normodotati, in scuole separate. È scandaloso. In Italia abbiamo ragazzi autistici in classi aperte a tutti, asili con ragazzi disabili. Il lavoro da fare è ancora tanto ma confrontati col resto del mondo noi italiani siamo avanti di cinquant’anni».

Se siamo avanti come dici tu, e considerato che il tuo teatro è ancora di nicchia, in che modo pensi che si potrebbe valorizzare di più in Italia un’esperienza come la tua, cosa manca per allargare e rendere più popolare un “metodo” che può aiutare sia i ragazzi che le loro famiglie?
«C’è bisogno di finanziamenti. Ci sono moltissime strutture in giro per l’Italia che mi chiedono di fare formazione, perché anche lì si possano creare movimenti come il Teatro Patologico e aiutare decine di famiglie. In Italia 17 milioni hanno a che fare col disagio mentale. Io ho una mia equipe a Roma, ma non ho le possibilità economiche di mandarla in giro. Con degli aiuti potrei organizzare un gruppo di docenti per fare formazione nel paese, sarebbe qualcosa di straordinario».