Abbiamo chiesto ad Alessandro De Nicola, giurista e docente di economia di cultura liberale, Bocconiano, presidente degli Alumni di Oxford e Cambridge e firma di Repubblica un parere sugli errori e le prospettive dei partiti dell’ex terzo polo. Appassionato di storia, De Nicola ha da poco pubblicato un romanzo storico distopico, « Il ducetto », che indaga il carattere nazionale degli italiani. E la loro irresistibile attrazione per l’autoritarismo soft, nazionalpopolare.

Dopo le elezioni si consolida il centrodestra. Andiamo verso il «partito della nazione»?
«Se la domanda fosse riferita all’alleanza tra i vari partiti di centrodestra la risposta sarebbe sì. Tra alti e bassi dura da trent’anni salvo rari periodi in cui qualcuno era al governo e qualcuno all’opposizione. Sul partito ho seri dubbi : vedo culture politiche diverse e un atteggiamento « noi contro il resto del mondo » che non sono propri di un partito della nazione».

Le elezioni europee ci consegnano un’Europa frammentata: un po’ più a destra, si ripartisce il consenso a sinistra. Si apre un nuovo ciclo?
«Avanzano un pochino le sinistre estreme ma i socialisti sono in lieve diminuzione e i verdi crollano : nel complesso un saldo negativo. Sono incoraggiato dal fatto che i socialisti francesi stiano lentamente staccandosi dal massimalismo (come il Labour britannico). Non vedo nuovi cicli e non amerei un ulteriore slittamento egalitarista, radicaloide e tassa-e-spendi del PD».

In questo contesto, le democrazie ballano. Non so se è una taranta pizzicata. Si vota in Uk, in Francia e subito dopo l’estate per Washington. Chi vota Trump fa un favore a Putin.
«Chi vota Farage fa un favore a Putin, chi vota Le Pen fa un favore a Putin, chi vota Trump fa un favore a Putin, sperando che gli anticorpi presenti in Francia e USA impediscano che il favore sia troppo grande».

Mario Draghi può svolgere ancora un ruolo?
«Un ruolo ad hoc certamente, ma non credo un ruolo apicale come Presidente del Consiglio Europeo o della Commissione».

Servirebbe un gruppo europeo liberaldemocratico forte, e invece proprio noi italiani siamo venuti meno. Per colpa di chi, o di cosa?
«Ovviamente per colpa della divisione tra i partiti di Renew che non solo ha diviso i voti, ma li ha diminuiti con alcuni che hanno cercato il voto utile e altri sinceramente arrabbiati della divisione e della mancanza di una visione coerentemente liberaldemocratica che o si sono in gran parte astenuti o si sono avvicinati a chi li rappresentava meno peggio come Forza Italia o il PD».

E le soluzioni, adesso, quali possono essere ? Vanno rimessi insieme i cocci ma abbiamo partiti e tifoserie che non dialogano. Come vede il futuro del terzo polo?
«Parlo da spectateur engagé e credo che le tifoserie rappresentino una parte assai piccola dell’elettorato; nei partiti ci sono opinioni molto diverse, anche se spesso sotterranee. Il polo liberaldemocratico ha poco tempo per nascere e poi un po’ più di tempo per organizzarsi prima delle elezioni».

Quale percorso consiglierebbe?
«Il polo liberaldemocratico conta sull’elettorato d’opinione, non su clientele e pochissimo sul ceto politico. Rivolgiamoci all’elettorato».

E quindi?
«L’idea di una costituente seguita da primarie accompagnata da un manifesto di princìpi mi sembra ottima. Da perseguire con determinazione ma non in modo affrettato, costruendo consenso e condivisione. Ci sono energie nuove emerse anche durante la campagna elettorale (penso al nostro Watson o ad Alessandro Tommasi) e nessuno chiede a chichessia di ritirarsi a Sant’Elena, anche se c’è chi ha già detto che non intende riproporsi in ruoli di leadership».

Si parla di un federatore, un arbitro che scenda a gestire il peace-keeping tra i riformisti. Giuseppe Benedetto, Francesco Rutelli…
«Rutelli si è tirato fuori, se poi il mio amico Benedetto sente la parola « riformisti » gli viene la febbre alta! Comunque lo schema è: idee condivise, garanzie di regole certe, costituente aperta e competitiva affinché emerga una leadership, non un Ducetto».

Già, il Ducetto. Lei ne parla nel suo romanzo. I personalismi dei leader oggi sono connaturati alla polarizzazione che è frutto delle dinamiche elettorali ma anche delle meccaniche dei social network e dell’ipermediatizzazione televisiva. E allora ci vorrebbe un leader capace di sottrarvisi, o meglio : di volare alto.
«Ci vorrebbe un Mario Draghi un po’ più giovane. Ma non siamo condannati ad avere dei baciatori di prosciutti o ad essere prigionieri del «Vaffa». Ci sono molti decenti politici che riescono a vincere le elezioni ed essere poi buoni governanti. Penso al polacco Tusk, al nostro amico olandese Rutte e spero che tale sarà Starmer nel Regno Unito. Il meglio è nemico del bene, ma non c’è solo il peggio o il mediocre».

Eppure di competenza e buona politica c’è bisogno oggi più che mai. Bisogna ripartire dai fondamentali, dai giovani, dall’università per investire su una nuova classe dirigente?
«La volta che mi sentirete dire «ripartire dal territorio» rinchiudetemi all’isola di Montecristo. «Il patto dei produttori» di lamalfiana memoria, contro le rendite di posizione, la burocrazia, il nepotismo, l’appiattimento e certamente con soggetti diversi da quelli degli anni Settanta mi sembra ancora una formula non malvagia».

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.