Il fascismo ha rappresentato una grandissima, tragica esperienza dello spirito italiano, un percorso di abdicazione civile e di involuzione morale in cui il Paese si è immesso meno per sistematica imposizione che per l’illusoria fiducia in un provvidenziale riscatto delle frustrazioni nazionali. E su quella via di mortificazione trasfigurata nella pompa delle predestinazioni non solo le classi dirigenti, ma anche le maggioranze popolari davano tutte sé stesse: perché c’era differenza di grammatica, ma non effettuale, tra il discorso del capitano d’industria che salutava “la personalità dominatrice” di Benito Mussolini e il risentimento plebeo che si affidava alla violenza di quell’uomo senza segni di privilegio, il maestro elementare che si era fatto avanti con le gomitate e gli strilli che mettevano al loro posto i traditori delle speranze italiane.

Ma questa ampia e diffusamente condivisa mozione sentimentale era presidiata, appunto, da qualche grandezza, dal tentativo non sempre mal riuscito di adornare l’abominio sostanziale del fascismo di qualche preziosità formale, o mediante l’acquiescenza in favore delle lettere, delle arti, della ricerca e della produzione scientifica senza le quali il regime si sarebbe risolto in una bruna coltre di divieti stesa su un Paese bisognoso di poter vantare qualcosa oltre che l’ingiustizia della propria arretratezza.

Bene, nel proprio lavorìo di accreditamento, questa destra inetta – perlopiù inconsapevolmente, e questo ne aggrava la responsabilità – si lascia andare al recupero dei tratti pittoreschi e cialtroni di quel risalente ma non risolto periodo della nostra storia, il nazionalismo tanto imbecille quanto allarmante delle purezze italiane opposto alle cospirazioni del nemico straniero, le autosufficienze delle nostre tradizioni agricole trionfanti nella rivendicazione dell’autarchia della nocciola, il confessionalismo familista della politica delle nascite e il fondamentalismo razzista riassunto nel rosario che scaccia gli immigrati in nome di Gesù Cristo.

Ma il fatto che si tratti soltanto di aromi, per quanto a volte pervasivi, insomma di una riproposizione superficiale, per quanto a volte difficilmente scalfibile, di ciò che purtroppo conoscemmo, appunto aggrava anziché assolvere la condotta di una classe politica evidentemente inconsapevole del fatto che “dire” certe cose è un modo di preconizzarne la realizzazione. Per fortuna, la pochezza culturale di questa destra impedisce che certi spropositi trovino oggi addentellati simili alle giustificazioni episodicamente erudite di cui il regime fascista riuscì a valersi. Ma è solo peggio, perché significa che la piega illiberale e autoritaria non ha neppure bisogno di agghindarsi, di presentarsi in bella copia, di nobilitarsi in qualche accreditamento diverso rispetto “alla volontà degli elettori”.