Il 25 aprile si è trasformato, per una componente della maggioranza di governo, in un tentativo di liberazione dalla Resistenza. È partito dai palazzi del potere l’assalto al fondamento antifascista della Costituzione. La destra, hanno scritto le penne del Corriere, non ha bisogno di “camerieri” ma di “maggiordomi”. E proprio il lavoro discreto degli esperti in revisionismo storiografico ha fornito una pietanza preziosa. Fratelli d’Italia l’ha metabolizzata, e ora lavora per sganciare la democrazia (valore in sé accettabile) dall’antifascismo (incidente congiunturale e pieno di ambiguità ed errori). L’ambizione è quella di conquistare il controllo di una repubblica senza più radici.

Non esiste, però, un sistema politico che cammini leggero tra le nuvole della poesia costituzionale senza l’aggancio con la storia prosaica che l’ha prodotto. E il costituzionalismo repubblicano non è scaturito in Italia da un tranquillo concorso per ricavare i modellini istituzionali migliori. Presuppone la caduta del fascismo e il modo in cui le forze in campo hanno gestito la cesura rispetto al ventennio totalitario. Grazie anche alla svolta di Salerno, i comunisti italiani sono entrati nella coalizione dei partiti emersi nella catastrofe della guerra come i moderni principi (oltre che ministro della Giustizia, Togliatti è stato vicepresidente del Consiglio). Gli attori che hanno partecipato ai governi della transizione e alla guerra partigiana sono diventati sul campo i sovrani del nuovo ordine politico.

La storia, sul piano della cruda effettualità dei rapporti di forza che nessuna impresa di revisionismo potrà mai alterare, ha prodotto il fondamento della Repubblica. I partiti che hanno preso parte ai governi di unità nazionale, dal secondo presieduto da Badoglio in poi, e, imbracciate le armi, hanno costituito il Comitato di Liberazione Nazionale si sono meritati i galloni per dare le carte come i titolari del potere costituente. Della coalizione dominante, che gestisce i passaggi della ricostruzione e riceve dagli eventi reali le chiavi per delineare i principi valoriali del futuro Stato, sono entrati a far parte anche i comunisti, i più numerosi nella lotta armata e molto abili anche nella scrittura delle nuove istituzioni.

Proprio per il contributo essenziale del fattore antifascista nella rifondazione dello Stato, le velleità di rimuoverlo come radice delle virtù repubblicane sono destinate ad urtare contro l’irreversibilità dei processi storici. Il tentativo di sostituire la categoria più specifica e pregnante dell’“antifascismo” con quella di una generica ostilità ai “totalitarismi” obbedisce a una operazione inquietante, già sperimentata nelle democrazie illiberali erette nella “nuova Europa”. Il disegno è quello di scolorire del tutto le vicende del Novecento per concedere una ospitalità gratuita alle destre radicali che rispolverano i loro simboli di ieri. Non è casuale che all’assalto contro il 25 aprile si sia aggiunta la battaglia contro la cosiddetta “sostituzione etnica”, tipica di certe democrature orientali. Non si tratta, come hanno scritto premurosi a via Solferino, di esagerazioni verbali riconducibili a rustici luogotenenti alle quali il sobrio linguaggio politico di Giorgia Meloni sarebbe estraneo da molti anni.

Non c’è stato un solo suo comizio (nelle adunate svoltesi sino a settembre del 2022) che non abbia fatto ricorso all’espressione incriminata, così fortemente evocativa delle novecentesche mitologie distruttive del sangue e della terra. A dettare la linea, tesa a sganciare Resistenza e Costituzione, ci pensa il revisionismo dei giornali: al Corriere, che da tempo auspica i “necessari oblii” e le “opportune dimenticanze” per la legittimazione definitiva dei nuovi inquilini del potere, si è aggiunto Domani, che esorta ad archiviare gli stereotipi di un “modello interpretativo tutto centrato sulla continuità tra antifascismo e democrazia repubblicana”. La manovalanza è garantita dalla seconda carica dello Stato e da ministri ancora nostalgici che tentano il colpo grosso di recidere le basi storiche della Repubblica per sancire l’eterno ritorno dell’eguale.

È in corso una impegnativa guerra culturale e politica sui fondamenti del patto costituzionale. Il legame storico e ideale con il sentiero che dai partigiani conduce alla Costituente non servirà a nulla se non si ricostruisce una capacità di reazione di massa alla volontà di potenza dei figli della fiamma tricolore. Dinanzi alle operazioni largamente insincere con cui i leader della destra radicale rassicurano a parole circa la loro conciliazione con la genesi della Repubblica, serve la ridefinizione di una prospettiva politica capace di creare una solida connessione sentimentale tra popolo e democrazia costituzionale.

La sinistra parte da una condizione di visibile svantaggio. Il voto di settembre ha aperto una ferita simbolica che ha visto la profanazione dei miti fondativi della Repubblica. E la gestione delle risorse del potere conferisce alla destra revanscista l’opportunità di sollevare un’ondata di omologazione e di nuovo conformismo. È però ancora possibile scongiurare che ad essere travolto, nella guerra sui fondamenti, alla fine sia l’ordinamento costituzionale.

Nel conflitto tra due principi antitetici, quello scolpito nella Carta dal processo storico dell’antifascismo e quello coltivato dagli sconfitti del 1945 nostalgici della triade “Dio, patria e famiglia”, a decidere l’esito dello scontro sarà il quadro del rapporto tra le forze. Partiti e sindacato dovrebbero prepararsi alla battaglia delle idee nella consapevolezza che, se cade l’Italia, una catastrofe politico-costituzionale contagerà la vecchia Europa, con esiti regressivi sul piano dei diritti e delle libertà. Per questo conserva un senso il valore della Resistenza come garanzia della liberazione dalle scorie del neofascismo.