1. Le inascoltabili e, prima ancora, indicibili dichiarazioni del Presidente del Senato («la parola antifascismo non c’è nella Costituzione») e del Ministro della sovranità alimentare («non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica») meritano tutto il biasimo ricevuto nei giorni scorsi. Possono, però, rappresentare una (ancorché pessima) occasione per piantare alcuni picchetti attorno alla corretta lettura della Costituzione e all’uso del linguaggio nelle democrazie. A futura memoria, se la memoria ha un futuro in un paese dove diffusa è la propensione a manipolarla.

2. La goffa autodifesa della seconda carica dello Stato, tesa a derubricare la propria affermazione a mero rilievo filologico, non è credibile. Parlamentare e avvocato di lunga esperienza, il Presidente La Russa ha familiarità con l’esegesi dei testi giuridici. Sa bene, dunque, che «l’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative, metodo primitivo sempre» (Corte costituzionale docet: sent. n. 1/2013), lo è ancor più se la si applica alle disposizioni costituzionali.

Per loro natura, infatti, le Costituzioni sono uno spartiacque nella storia di un Paese. Separano il “prima” dal “dopo”. Nate da un evento traumatico, introducono principi e strutture a negazione dell’ordinamento precedente. La nostra non fa eccezione: nella sua trama normativa, infatti, descrive (e prescrive) una Repubblica che è il calco rovesciato del fascismo, proprio perché frutto della lotta a quel regime.

3. È l’interpretazione sistematica tra le sue disposizioni, innanzitutto, a rivelarne l’intrinseca matrice antifascista. All’organicismo totalitario del ventennio, che voleva «tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato», i Costituenti rispondono capovolgendo la piramide: è infatti nel principio personalistico, anti-totalitario per eccellenza, che trovò espressione l’unità antifascista in Assemblea Costituente. L’idea, cioè, che la dignità di ogni persona è anteposta allo Stato, chiamato semmai a riconoscerla e a garantirla.

La presa di distanza dal passato è netta, e non si limita alle sole affermazioni di principio. Così è per il tratto costitutivo e identitario del fascismo: il ricorso alla violenza, sistematico e organizzato, per affermare il partito-Stato. La Costituzione riconosce, invece, il massimo di pluralismo politico possibile, ma non è ingenuamente irenica. Impone, infatti, il metodo democratico nella competizione tra partiti (art. 49). Vieta le associazioni segrete e le associazioni paramilitari (art. 18). Ripudia il concetto di ordine pubblico in senso ideologico (clava con cui il fascismo colpì le libertà riconosciute dallo Statuto albertino), declinandolo in un’accezione solo materiale. Il denominatore comune a questa costellazione normativa è la messa al bando dell’uso o anche solo della minaccia della violenza nella lotta politica: perché la democrazia liberale è conflitto senza spargimento di sangue, e la sua Costituzione non tollera gli intolleranti.

4. La comprensione di altre disposizioni costituzionali richiede un diverso criterio di lettura: la c.d. interpretazione storica, che mette a valore l’intentio dei Costituenti. Vale per la XII disp. trans.fin, a tenore della quale «è vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» (1° comma). L’aggettivo («disciolto») guarda al passato, mentre il sintagma («sotto qualsiasi forma») guarda al futuro: insieme, certificano l’irriducibilità del fascismo alla nuova Costituzione. Guarda, invece, contemporaneamente al passato e al futuro il suo 2° comma, precisando che le conseguenti limitazioni «al diritto di voto e alla eleggibilità» sono circoscritte a un quinquennio e valgono solamente «per i capi responsabili del regime fascista».

Un temporaneo interdetto che, con le amnistie del 1946 e del 1953, compone la strumentazione giuridica con la quale si garantì una transizione pacifica dal vecchio al nuovo regime, in un Paese diffusamente compromesso – ad ogni livello – con il fascismo. In senso giuridico-politico, dunque, la pacificazione c’è già stata allora. Ecco perché i ciclici inviti alla concordia nazionale sono tutti anacronistici. Non siamo più immersi in una guerra civile. Né ci sono torti e ragioni da patteggiare.

5. All’opposto del Presidente La Russa, il ministro Lollobrigida evoca una parola citata in Costituzione: «razza». Ma dimostra di non capirne l’uso che intesero farne i Costituenti. Dal punto di vista scientifico, infatti, quel lemma è semplicemente sbagliato, perché non esiste una nozione biologica di razza applicabile alla specie umana. Eppure compare nell’art. 3 Cost.Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali») per scelta deliberata dell’Assemblea Costituente: non come concetto scientifico, ma – anche qui – quale memento del passato e ammonimento per il futuro.

La nostra storia, infatti, ha conosciuto durante il fascismo il Manifesto della Razza (secondo cui «esistono grandi razze e piccole razze» e che «è tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti») con le sue riviste di complemento (La Difesa della razza, La Nobiltà della stirpe, Il Diritto Razzista, Razza e civiltà) e la conseguente legislazione razziale, cioè razzista, del 1938. Ha avuto i suoi alacri campi di concentramento alla Risiera di San Sabba come a Fossoli, Ferramonti di Tarsia, Bolzano, Bagno a Ripoli. Quello italiano va annoverato fra i «regimi fascisti europei che consegnarono propri concittadini ai carnefici» nazisti, di cui ha parlato ad Auschwitz, giorni fa, il Capo dello Stato Mattarella. Ecco perché si scrisse quella «parola maledetta» nell’art. 3 Cost., proprio «per negare il concetto che vi è legato, e affermare l’eguaglianza assoluta di tutti i cittadini» (così Meuccio Ruini, in Assemblea Costituente).

6. Come già in Francia e in Germania, anche in Italia non mancano iniziative finalizzate alla cancellazione della parola «razza» dal testo costituzionale. Il motivo? La sua permanenza, alimentando la fallace convinzione che diverse razze umane esistano davvero, può rivelarsi un potenziale pretesto per rinnovate visioni razziste. È vero il contrario. Come ci ricorda il linguista Federico Faloppa, quella parola va preservata «proprio perché paradossalmente il senso comune (e il linguaggio attraverso cui questo si trasmette) è ancora intriso del concetto di razza».

In questi casi, agli aggiustamenti nominali della cancel culture è preferibile l’eccedenza simbolica di un divieto perentorio. Come nella più classica eterogenesi dei fini, una modifica dell’art. 3 Cost. potrebbe indebolire l’attuale presidio a difesa dell’eguaglianza e contro discriminazioni ispirate a pregiudizi razziali. Ecco perché stordisce che un ministro, evocando l’idea di una sostituzione etnica in atto, non si accorga di avvalorarne la consistenza. Come se il concetto di razza avesse ancora dignità scientifica e corso legale.

7. Detto tutto ciò, resta l’interrogativo di fondo: perché fare (e reiterare, nel caso del Presidente La Russa) esternazioni così irricevibili? Certamente per ignoranza, nel senso proprio di chi ignora ciò di cui pure parla: questa l’autodifesa del ministro Lollobrigida, che a ben vedere ne aggrava – invece di scriminare – la responsabilità. Forse per il proprio portato biografico, come ipotizza Flavia Perina (La Stampa, 22 aprile): se è così, dovrebbe allora subentrare la competenza di un bravo psicoterapeuta. Nel frattempo, però, meglio sarebbe tacere per non scaricare i propri fantasmi sull’istituzione che si ricopre pro tempore.

Probabilmente per attitudine alla menzogna, cui i soggetti investiti di potere spesso cedono pur di acquisire consenso, conseguire un risultato, difendersi da un’accusa. E in politica, difficilmente la menzogna è isolata e solitaria, perché necessita di essere ribadita e condivisa. Il che ne fa un serio problema per le democrazie, che si reggono sul ragionevole affidamento che quanto detto dai responsabili politici corrisponda al vero. Personalmente, propendo per un’ulteriore risposta. Simili esternazioni sono come tanti carotaggi, via via sempre più profondi, scavati per saggiare la capacità di reazione o il grado di assuefazione del Paese. Uno spostare sempre più avanti un’ideale linea rossa invalicabile, mirando a trasformare in senso comune pensieri e parole un tempo relegati ai bar di paese. Non sono gaffe, ma tappe di una strategia consapevole.

Sia come sia, enorme è il potere delle parole di chi è al potere. Ha capacità performative e trasformative. È in grado di creare le cose, se veicolato in atti normativi. Nasce da qui l’obbligo per i soggetti delle istituzioni di non usare un linguaggio corrotto. Un obbligo che dovrebbe valere sempre: quando si scrive una legge, si interviene in pubblico, si rilascia un’intervista o si partecipa a un talk show. In democrazia, conta la qualità delle parole che si mettono in circolo: devono essere informate, fondate, precise, a basso tenore emotivo. È, questa, una responsabilità ignorata da troppi, sicuramente trascurata dal Presidente del Senato e dal Ministro.

8. La polemica politico-memoriale attorno alle celebrazioni del 25 aprile, vissuta come festa divisiva e non inclusiva, poggia anche su questa base lessicale lastricata da parole deliberatamente sbagliate e da reticenti e omissivi silenzi. Ci sono però dei colpi di gong con cui la storia richiama tutti – in primis i vertici delle istituzioni – a confrontarsi con i tornanti decisivi della vita collettiva. Come quello che rimbomberà il 10 giugno 2024, a cent’anni esatti dal rapimento politico e della barbara uccisione di Giacomo Matteotti. Quali parole adopereranno i vertici di Palazzo Chigi e di Palazzo Madama? Nel dubbio, segniamoci la data sul calendario.