La campagna per il boicottaggio nei confronti dei referendum è già partita. Con i dubbi sulla data, prima di tutto. E anche con l’incoronazione, attuata da Riccardo Iacona a Presa diretta, dell’ex pm Nino Di Matteo a portavoce del Comitato del NO. Sulla data: pare sempre difficile fare la cosa più semplice, cioè l’accorpamento dei referendum con le elezioni amministrative, il che comporterebbe un bel risparmio economico. Lo ha chiesto questa volta uno dei promotori, insieme ai radicali, cioè Matteo Salvini, come altri inutilmente nel passato. Ma in certi ambienti pare venga l’orticaria solo a sentir parlare di dare la parola ai cittadini.

Così ecco la piccola furbata, non nuova, cioè fissare la data con il secondo turno elettorale, cioè per esempio il 12 giugno, quando le scuole sono chiuse e i bambini, con relativi genitori o nonni sono a prendere l’aria pura del mare. Tranne quelli di Genova e Palermo, che potrebbero andare in montagna. Certo la ministra Lamorgese non farebbe una bella figura se inducesse il sospetto di voler solo fare un dispetto a Matteo Salvini. Quindi, suvvia, si faccia il bel gesto e si fissi la data del referendum in concomitanza al primo turno delle elezioni di Genova, Palermo, Padova, Parma e altre città e Comuni di diverse dimensioni. Ma non è solo il sistema burocratico e mettere il bastone tra le ruote alla libera espressione dei cittadini. Negli ambienti istituzionali si stanno già muovendo le toghe, uscite salve dal quesito sulla responsabilità civile diretta, cassato dalla Corte Costituzionale senza un vero perché che non sia una motivazione di ordine politico.

Ma c’è un altro Babau che mette i brividi in corpo al partito dei pm e che li ha già fatti insorgere come un sol uomo, ed è la separazione delle carriere tra il pubblico accusatore e il giudice. Il referendum in realtà parla di separazione delle funzioni, e propone che il magistrato, dopo aver vinto il concorso, scelga la propria definitiva collocazione: in mezzo ai due piatti della bilancia, come giudice terzo e imparziale, o da una parte, quella dell’accusa in contrapposizione a quella della difesa. Parti uguali, come prevede il codice di procedura penale del 1989. La riforma della ministra Cartabia sta già andando in quella direzione, però si limita a ridurre il numero di possibili passaggi da un ruolo all’altro nel corso della carriera di ogni magistrato. Ma non è questione di numeri, c’è un salto di qualità tra le due proposte, è facile da capire.

Ed è proprio per questa differenza qualitativa, che c’è tanta agitazione tra le toghe. Sono partiti subito i pm (e qualche ex di prestigio come Giancarlo Caselli) più accreditati, come Nino Di Matteo, oggi membro del Csm, ma a lungo pubblico ministero “antimafia” e, quasi da esordiente, rappresentante dell’accusa nell’inchiesta sull’uccisione del giudice Borsellino a la gestione sciagurata del falso pentito Enzo Scarantino. E poi grande sostenitore del fallimentare processo “Stato mafia”, conclusosi con l’assoluzione degli imputati politici e istituzionali. Da ventinove anni sotto scorta, così viene sempre presentato nelle trasmissioni tv, per ricordarne non solo l’indubbio sacrificio umano, ma anche la rilevanza del personaggio. Proprio per questo, quando abbiamo ascoltato la sua voce parlare di separazione delle carriere in una lunga intervista tv, siamo rimasti decisamente delusi. Se questi sono gli argomenti degli esponenti del NO più preparati, il SI’ dovrebbe avere giù vinto, abbiamo pensato. Ed eccole, le motivazioni del NO. Oltre a tutto banali, possiamo dirlo?

La prima considerazione è che – ci smentisca se gli riesce, dottor Di Matteo – gli argomenti, almeno i primi due, sono decisamente politici. Il primo lo butta lì subito: la separazione delle carriere faceva parte del “Piano di Rinascita democratica” di Licio Gelli. E quindi? Non risulta che il fondatore della loggia P2 sia stato condannato per aver scritto un programma politico, né che quel programma fosse eversivo. Ma il secondo argomento del consigliere Di Matteo è addirittura sorprendente se utilizzato da una toga: no alla separazione della carriere perché questo è anche nel programma di Forza Italia. Ripetiamo, a maggior ragione: e allora? Il partito fondato da Silvio Berlusconi è forse composto da criminali e il suo programma di conseguenza potrebbe mettere in discussione la composizione democratica dello Stato?

Il terzo argomento è addirittura da Stato etico. Poiché nessuno può negare il fatto che in gran parte dell’occidente e in particolare nei regimi di common law dei Paesi anglosassoni non esiste la magistratura, ma solo i giudici da una parte e gli avvocati dell’accusa e della difesa dall’altra, ecco che si devono indossare i panni del Grande Moralista e alzare il ditino: ma in quei Paesi non si processa mai il Potere. Il che è prima di tutto falso, ma soprattutto preoccupante. Ed è inutile ricordare che non è quello il compito dei pubblici ministeri. Ma siamo anche nel trentennale di Mani Pulite (altra definizione da Stato etico) ed è facile cascare nel tranello di chi preferisce combattere i fenomeni sociali piuttosto che limitarsi al suo compito di cercare i responsabili dei reati.

Se questi sono gli argomenti più politici e più banali, non sono più interessanti quelli che riguardano più da vicino la figura stessa del pubblico ministero, che in Italia è un soggetto potentissimo con la caratteristica quasi unica al mondo di non rispondere a nessuno del proprio operato. Né al Parlamento né agli elettori. Con mille contraddizioni, perché i pm più popolari, come fu Tonino Di Pietro negli anni novanta e come è oggi Nicola Gratteri, devono la loro fortuna alla grande popolarità, quasi fossero stati o fossero in campagna elettorale permanente. Ma questo non preoccupa quanto invece, ed è un altro argomento del dottor Di Matteo e degli altri pm per il NO, la “sottoposizione all’esecutivo”. Un mostro? No, visto che è così in Francia, dove pure esiste la carriera unica dei magistrati, come negli Stati Uniti, dove le cariche sono in gran parte elettive. A questo argomento (che puzza un po’ anche lui dell’ossessione di dover processare “il Potere”) occorre rispondere innanzi tutto che non è così scontato come conseguenza della separazione delle carriere.

Potrebbero infatti esserci due Csm, uno dei giudici e uno dei pm, a garanzia della totale indipendenza e autonomia. Ma soprattutto, vogliamo che in Italia il pubblico accusatore sia sempre del tutto irresponsabile, così da non pagare mai per i propri errori, che sono tanti e ormai sotto gli occhi di tutti? La verità è che è proprio così, il pubblico ministero non vuol essere equiparato a nessun altro soggetto della società, vuol continuare a essere un privilegiato, e se sbaglia vuole l’assoluzione preventiva e le spalle coperte dallo Stato. A questo proposito, una bella lezione arriva da Alexandro Maria Tirelli, presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale. Il quale, pur ricordando l’importanza dell’autonomia e indipendenza della magistratura, ricorda anche: «…non possiamo fingere di non vedere gli errori commessi per imperizia, incuria, talvolta – purtroppo – incapacità degli operatori pubblici del diritto che si trasformano in indagini abnormi, in arresti ingiusti, vere e proprie cacce all’uomo, che di giudiziario hanno solo la veste formale».

Di conseguenza, conclude l’avvocato Tirelli «la responsabilità civile dei magistrati, malgrado la bocciatura del quesito referendario, rappresenta una battaglia politica di civiltà che non può essere abbandonata». Insieme agli altri cinque quesiti. Forse anche al Presidente delle Camere penali del diritto europeo e internazionale, il neo portavoce del NO del Partito dei pm risponderebbe così come ha già fatto a Presa diretta: la verità è che siamo in presenza di un tentativo di regolamento dei conti da parte della politica nei confronti di un pezzo di magistratura. Quale pezzo? Quello che lotta, ovviamente. È in questo ambito che dobbiamo collocare anche la ministra Lamorgese e la sua prossima decisione sulla data? Noi continuiamo a sperare di no.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.