Mi piace essere preciso: il primo cortometraggio di Walt Disney che ha come protagonista Topolino e Minnie è “Steamboat Willie” del 1928: dopo quasi 100 anni possiamo ben dire che la società Disney fondata dall’eccelso creatore di Topolino, Paperino, Zio Paperone etc. etc. ha avuto un successo gigantesco: a oggi la società vale più di 200 miliardi di dollari.
Ma non sono tutte rose e fiori dal punto di vista della becera analisi finanziaria: nel 2021 la società valeva quasi il doppio rispetto a oggi. Secondo alcuni la (relativamente) brutta china presa dalla Disney è anche dovuta alla scelta di abbracciare in maniera quasi ossessiva l’agenda liberal e postmoderna del politicamente corretto, della cosiddetta DEI (Diversity, Equity, Inclusion), secondo cui l’obiettivo preminente dell’azione politica e sociale dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni “illuminate” consiste nel riparare i torti subiti dalle minoranze sociali, etniche e di genere che nel corso della storia sono state oppresse.

Nel caso di un’impresa culturale e del divertimento come la Disney, la riparazione -da attuarsi con annesso senso di colpa da parte dei gruppi privilegiati che gestiscono il potere- consiste nel dare spazio nei propri film, cartoon e serie televisive alle minoranze sottorappresentate di cui sopra: dalle persone di colore alle donne, dagli omosessuali e dalle lesbiche ai gruppi etnici che hanno subito l’aggressione coloniale dei maschi bianchi occidentali tendenzialmente eterosessuali e tendenzialmente affezionati al proprio genere biologico. Non solo: gli elementi di aggressività che potrebbero essere non rari e non privi di divertimento in un film o in un cartone animato dovrebbero essere generalmente tenuti “sotto controllo”, evitando altresì la situazione disdicevole in cui il soggetto oppresso o colpito dall’aggressività appartenga a una minoranza sottorappresentata.

Ordunque: se analizzassimo il famoso Steamboat Willie sulla base di questa agenda ideologica, dovremmo senz’altro censurare senza pietà questa oppressiva storia del battello guidato da Topolino che a sua volta viene sistematicamente bullizzato da Pietro Gambadilegno. Ad esempio, nei primi 2 minuti del cortometraggio assistiamo sgomenti ai seguenti episodi di violenza gratuita: (i) la sirena di mezza altezza prende a calci la sirena diversamente alta e diversamente magra che si dimentica di emettere il suo fischio; (ii) in uno scatto iracondo di abominevole specismo, Topolino sbatte un secchio in testa al pappagallo che lo deride; (iii) Pietro Gambadilegno usa violenza a se stesso sputandosi in faccia del tabacco da masticare e finisce accecato. Davvero troppo!

A parte i facili scherzi (tra parentesi: speriamo di non dare idee su censure prossime venture), nessuno potrebbe mai negare che la storia umana –e in particolare quella americana, dato che stiamo parlando della Disney- per lungo tempo si sia caratterizzata per la presenza di discriminazione e violenza nei confronti di minoranze o di gruppi con minore potere, ma nello stesso modo nessuno dovrebbe dimenticarsi di quanto progresso sia stato fatto a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, dai tempi di Truman, Kennedy e soprattutto Lyndon Johnson, nella fattispecie sul tema dei diritti civili negati agli afroamericani. E durante il secolo scorso anche la parità di genere, pur non completa soprattutto sotto il profilo economico dei salari e delle progressioni di carriera, ha compiuto dei passi sacrosanti e giganteschi. Ma nel caso della Disney e di altre società americane l’agenda del politicamente corretto e della protezione delle minoranze è diventata ormai un’ossessione, se non una quasi-religione dai contorni di sconcertante intolleranza.

Come ben raccontato da Douglas Murray nel suo ottimo “Guerra all’Occidente”, la cancel culture finalizzata a vendicarsi degli oppressori maschi occidentali è arrivata ad ottenere che la Hume Tower presso l’Università di Edimburgo cambiasse nome perché l’eccelso filosofo scozzese aveva espresso opinioni razziste e non contrarie allo schiavismo (a quanto pare l’unica espressione esplicita sul tema apparve in una sua lettera del 1776 in cui egli suggeriva a Lord Hertford di acquistare una piantagione coltivata da schiavi a Grenada).
Tornando al tema iniziale, è notizia di qualche giorno fa la decisione di Elon Musk, proprietario di Tesla, Space X e di X fu Twitter, di coprire le spese legali di chiunque sia stato discriminato o licenziato dalla Disney a motivo di dichiarazioni o posizioni non coerenti con la policy aziendale di cui sopra. La prima persona beneficiata da questo intervento è l’attrice Gina Carano, che partecipò alle prime due edizioni della serie TV The Mandalorian (tratta dalla saga di Guerre Stellari) e che fu poi licenziata per alcune dichiarazioni via social network, in particolare quella secondo cui i conservatori negli USA rischiavano di venire trattati come gli ebrei dalla gente comune sobillata dalla propaganda dei nazisti. Si trattava di una dichiarazione pessima, ma la domanda che sorge spontanea è quella relativa alla simmetria di trattamento: come sarebbe stata trattata un’attrice o un attore che avesse usato la stessa metafora per descrivere il trattamento degli afroamericani negli USA da parte della polizia? (il caso rilevante è quello dell’uccisione di George Floyd da parte del poliziotto Derek Chauvin a Minneapolis il 25 maggio 2020). A parte la questione specifica di Gina Carano, l’aspetto più generale e più inquietante sollevato da Elon Musk è l’esistenza di un documento interno alla Disney sugli “standard di inclusione”, che devono essere seguiti sia nell’organizzazione del lavoro interno e nella cernita dei fornitori, che soprattutto nella scelta dei personaggi da includere nei film e nei cartoni animati, che –nel caso di presenze regolari e ricorrenti- per almeno il 50% devono appartenere a “gruppi sottorappresentati”.

Come si è potuti arrivare a regole così rigide e oppressive della libertà creativa? Fino a dove arriverà la tracotanza postmoderna –e parecchio sciocca- secondo cui l’appartenenza a un gruppo oppresso conferisce ragione a prescindere, anche nel produrre arte e cultura? Alla Disney dovrebbero ricordarsi della lezione eterna che dalla tragedia greca arriva persino all’arte comica di Steamboat Willie: il tracotante Gambadilegno finisce accecato dal suo stesso tabacco.