Donne capigruppo, donne ministre e il sogno di vedere una donna a Palazzo Chigi o al Quirinale. Una nuova stagione in rosa che certamente in molti auspicano perché finalmente vengano riconosciuti ruoli e reali pari opportunità anche alla parte femminile del Paese che peraltro, dati alla mano, è un po’ più della metà del popolo italiano.

Ma nel sottobosco della politica? Ovvero in quella fascia sociale che, quando i partiti esistevano e andavano di moda si chiamava base, attorno alla questione femminile che aria tira? Nulla di buono a sentire la testimonianza che sta girando in questi giorni in rete dell’avvocata Gabriella De Felice, professionista affermata da una vita in ambito legale, che allo scoccare dei 50 anni, d’un tratto, ha scelto di fare il grande passo: scendere – o salire – in politica per la sua città, Marino, nei Castelli Romani.

“Le quote rosa possono essere utili ma solo se utilizzate come stimolo iniziale e non come metodo. Il problema della rappresentanza in politica, infatti, crolla nel momento in cui, parlando semplicemente, si va a fare la tara sulla reale rappresentatività di non poche donne elette, diciamo, per necessità argomentava l’avvocatessa nel corso di un recente webinar ottimisticamente intitolato La Primavera delle Donne.

La domanda in merito alla quale, infatti, dobbiamo interrogarci è: chi agisce al di sopra e all’interno di queste quote? Generalmente sono dirigenti di partito uomini”.

Il problema, insomma, emerso con chiarezza plastica all’atto della composizione del Governo Draghi con la delegazione (solo maschile) di ministri del Partito Democratico, pare sia però,  a giudicare dalle affermazioni della De Felice, soltanto la punta di un iceberg.

Se, infatti, nel Pd la disparità che ha generato una sollevazione della base femminile (e delle elette) dem, ha portato a una urgente parificazione dei conti interni con le nomine nel sottogoverno e poi con l’acceso confronto a sesso unico (femminile) sulle capigruppo alla Camera e al Senato, sui territori le cose sembra vadano proprio in maniera diversa. E l’andazzo maschilista sembrerebbe essere alquanto generalizzato e trasversale.

Il nocciolo della questione è più profondo di quanto emerge e prescinde, in un certo senso, anche dai numeri e dalle percentuali: “Nei casi non infrequenti nei quali – ha detto ancora l’avvocata – a risultare elette sono  sorelle, cognate, nipoti, mogli di… e non personale politico nuovo generato da un sentito impegno civile, ecco che tutto il sistema incatenato e apparentemente geniale della rappresentanza forzatamente paritaria crolla come un castello di carte senza fondamenta”.

Al tavolo virtuale a discutere di queste tematiche, su fronti distanti, politicamente e anagraficamente, c’erano figure diverse quanto stimolanti per le rispettive esperienze vissute: da Flavia Perina, giornalista, ex parlamentare, una delle prime e rarissime direttrici di giornale, alla guida del Secolo d’Italia, quotidiano della destra, negli anni conclusivi dell’epopea finiana, a Elisa Serafini, liberale, poco più che trentenne, già assessora più giovane, poi dimessasi, nella giunta di centrodestra ancora in carica a Genova, esperienza dalla quale Elisa ha tratto un libro intitolato, non casualmente, Fuori dal Comune  il cui sottotitolo è ancor più eloquente: “dietro le quinte della politica locale per capire il Paese e costruire il futuro”.

A non rendere onore alle teorie trionfalistiche delle quote rosa, oltre alla denunce mirate e coraggiose legate spesso a precise storie, luoghi o, appunto, vicende personali, sono  anche purtroppo i numeri –  aggiornati allo scorso anno, prima del turno elettorale d’autunno –  che vedevano la percentuale femminile nelle giunte  al 33%, dato appena sopra il limite di legge che dal 2011 “obbliga” i sindaci a offrire un minimo del 30% per il genere meno rappresentato tra i suoi delegati, mentre il dato ben più significativo sulle sindache rimane inchiodato al di sotto del 15% ovvero mediamente una fascia tricolore bordata di rosa ogni sette. E questo nonostante lo choc del 2016 che ha visto le due capitali italiane: Torino e Roma eleggere prime cittadine due giovani donne.

Il problema ulteriore, ci hanno detto numerose signore con esperienze di vita e di lavoro assai differenti tra di loro, è che a queste quote non solo non viene riconosciuta la loro origine, necessitata dal fatto che viviamo in un Paese che vede partire le donne da posizioni e condizioni oggettivamente svantaggiate ma, al contrario, anche quando vengono ob torto collo applicate, in particolare nel mondo del lavoro, vedono quelli che una volta venivano chiamati “padroni”, sentirsi in dovere di richiedere alle donne anche dei superpoteri da dimostrare sul campo. Quelli che, per inciso, numerose professioniste/mamme in carriera, tra l’altro, già applicano con naturalezza,  dividendosi tra il ruolo complesso di madri e quello di lavoratrici.

Fatto sta che da supermamma a superdonna, fino ad arrivare alla quota mozzata, ciò che resta  denominatore comune è la distanza ancora ampia dall’ordinarietà che dovrebbe prevedere opportunità pari tra sessi diversi. Dove la donna, come l’uomo, possa essere considerata semplicemente un essere pensante e valutata sul merito anziché sui pregiudizi.