Quando siamo arrabbiati a volte alziamo la voce. Talvolta battiamo pure i pugni sul tavolo e di norma la lucidità della nostra argomentazione non ne guadagna. Nei fatti, se la discussione non ne risente, alla fine, quando avremo analizzato tutti gli argomenti sul tavolo, quelli gridati a voce più alta non risulteranno solo per quello i migliori, e in effetti non era per quello che avevamo alzato la voce. L’abbiamo fatto per la tensione, per paura di non essere ascoltati. Per debolezza. È paradossale ma il diritto penale ha una vita simile alle nostre arrabbiature. Questo delicato meccanismo pensato per affrontare nel modo più accorto possibile i fatti più gravi, le controversie che riguardano i temi più delicati per le nostre comunità, viene invocato a gran voce ogni volta che abbiamo una crisi che non sappiamo come affrontare. Di fronte a problemi complessi, che richiedono soluzioni articolate ed equilibrate, è invece facile invocare pene sempre più alte per chi individuiamo come responsabile. La domanda di diritto penale in questi casi è segno di debolezza, del non sapere affrontare un problema al livello della sua stessa complessità.

E questa è la storia della lotta alla droga. Stiamo parlando di una delle più importanti industrie del pianeta, sostenuta da attori economici, prevalentemente criminali, che in quanto tali non sono sottoposti a nessuna regola e a nessuno scrupolo in questo particolare mercato. Un fenomeno globale e opaco che condiziona governi e intere economie, ma di cui tutti vediamo soprattutto l’anello finale, lo spacciatore di strada che contratta con il suo cliente. La nostra ansia e incapacità di affrontare quel fenomeno globale, la nostra debolezza, è la misura della severità con cui ci vorremmo abbattere sul suo anello finale. In questa chiave va letta la richiesta di pene sempre più severe per gli spacciatori e in questo quadro è da inquadrare anche la recente dichiarazione del ministro dell’Interno Lamorgese: «Nel prossimo Consiglio dei ministri porrò la questione dell’inasprimento della pena per chi reitera il reato di spaccio».

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Dobbiamo essere onesti. Decenni di politiche proibizioniste ci consentono di prevedere, ormai senza più margine di errore, che la cosa non servirà assolutamente a nulla. Non calerà il traffico, non caleranno i consumi, non migliorerà l’aspetto delle nostre strade, non andrà via la nostra paura. Smetteranno di accusarci di essere lassisti con gli spacciatori? Probabilmente nemmeno questo, visto che l’accusa non ha nessun fondamento di realtà e dunque può sempre essere reiterata. In Italia, dati alla mano uno dei Paesi più sicuri d’Europa, secondo un’indagine Istat per il 38,2% degli italiani la paura della criminalità influenza molto o abbastanza le nostre abitudini, ed il 46,4% dei cittadini sono poco o per niente soddisfatti del lavoro svolto dalle forze dell’ordine. Tutto questo lo sappiamo perfettamente, eppure la richiesta di pene più severe per gli spacciatori, e non solo per loro, torna periodicamente ad affacciarsi. Eppure oggi in Italia oltre un terzo dei detenuti, più di 20mila persone, è in carcere per violazione della legge sulle droghe e quasi 180mila sono in attesa di un giudizio per la stessa ragione, ingolfando i tribunali e il lavoro della polizia. Una spesa colossale e totalmente inutile visto l’andamento dei consumi, che resta indifferente alle politiche penali anche più severe.

Ma c’è un’altra cosa che in fondo sappiamo perfettamente. Sappiamo che solo la legalizzazione restituirebbe più sicurezza ai cittadini, eliminando alla radice lo spaccio di strada contro cui il ministro cerca un rimedio efficace. Legalizzare significa colpire il narcotraffico, sfoltire il carico di lavoro dei tribunali e quello delle forze di polizia. Significa togliere introiti alla criminalità organizzata e assicurarne all’erario, risparmiando peraltro le cifre colossali attualmente destinate alla repressione. E significa migliorare la vita dei consumatori grazie alla presenza di sostanze controllate e al non ingresso nel circuito penale e penitenziario. Anche l’allora Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, si era espresso a favore della legalizzazione della cannabis e nel 2015 la proposta di legge in materia presentata dall’intergruppo parlamentare guidato da Benedetto Della Vedova aveva raccolto l’adesione di ben 218 parlamentari. Avevano firmato esponenti del Pd, del M5s, di Sel e del gruppo Misto. Sappiamo dunque esattamente cosa fare, ma non abbiamo la forza per farlo. Mentre la debolezza ci spinge di nuovo ad alzare la voce e a battere i pugni sul tavolo.