Provate a immergervi, per qualche giorno, nella poesia del napoletano Giambattista Marino, massimo esponente del barocco, generalmente accusata di tutto: leziosità, artificiosità. vuotezza, speciosità… (senza pensare alla sua biografia, torbida e sanguinosa come quella di Caravaggio). Potreste ricavarne perfino una lezione per la vita. Quando ho visto su una bancarella questo volumone delle opere di Marino (Rizzoli 1967, a cura di A. Asor Rosa) non ho resistito all’attrazione per un oggetto proibito. Sulla poesia barocca, e anzi su tutto il 600 decadente, grava una leggenda nera, quasi un’ombra di disonore. In che senso? Una poesia “nichilista” ridotta a puro gioco sonoro, ad alchimia della parola, a “affettazioni petrarchevoli” (Metastasio). La poetica di Marino, riassunta nel celebre endecasillabo «è del poeta il fin la meraviglia» è stata oggetto di disapprovazione moralistica nell’800 patriottico e civile. In fondo anche di uno spot pubblicitario il fine è la meraviglia. Però a bene vedere la meraviglia è anche all’origine della filosofia, secondo Platone. Si conosce qualcosa attraverso lo stupore. La poesia scopre il mondo, e ce lo rivela. Inoltre: non sempre in Marino la poesia si riduce a mera sonorità e magia verbale. Come sappiamo in poesia non si dà musica senza significati (Eliot).

Ma forse la considerazione principale è un’altra. Marino alla profondità e all’interiorità proprio non ci crede. Vogliamo fargliene una colpa? In questo ci somiglia molto, a noi italiani contemporanei. Se nei suoi versi cercate introspezione o meditazione morale avete sbagliato indirizzo. Eppure non era arido. La stessa simulazione delle passioni, il loro volgere in gioco fatuo, intessuto di audaci metafore, è trasparente. La sua è una attenzione minuziosa alla realtà esteriore, di cui ci offre precisa fenomenologia.  Volti femminili (donne belle o bruttissime e guercie), oggetti domestici, orologi, capi di abbigliamento, gesti quotidiani, sono ritratti con una esattezza che non può non essere anche attenzione del cuore. Come ha osservato Giovanni Getto è Tasso il nostro vero grande poeta barocco, cantore della caducità del tutto, mentre Marino alla consistenza e durata delle cose terrene ci crede di più. Non rappresentano solo il sigillo fugace di una vita autentica, che si troverebbe altrove, magari in una dimensione mistico-religiosa. La “musica” dei suoi versi, a volte goffa o capricciosa e altre volte sperimentale, ci commuove perché si sofferma sulle cose per trattenerle prima che svaniscano.

Il Seicento è stato un secolo irreligioso e malinconico. E Marino lo ha abitato senza gli eccessi stucchevoli dei marinisti e con una fondamentale inclinazione al buon umore. Nel sonetto XXIII – “Piano e riso” – assistiamo a una singolare competizione tra gli occhi e la bocca della donna. In questa messinscena, teneramente frivola, occhi e bocca rivendicano rispettivamente i propri diritti: a vincere è la bocca ridente. E sapete perché? Perché il riso è sempre da preferire al pianto. Com’è italiano! Nella sua sensibilità ci trovo un mix di tolleranza cosmopolita e saggezza conviviale: in un sonetto dedicato a una schiava nera Marino incurante di pregiudizi razziali, ne elogia la bellezza, la “luce” che vede uscir dal “tenebroso inchiostro”.  Influenzato soprattutto da Ovidio (come il Basile) Marino ritrova ovunque quei caratteri del mondo che predilige: la realtà è metamorfica, dissipatoria, mutevole. Si ribella al petrarchismo non per gusto dello sberleffo ma per rappresentare quella realtà per intero, senza selezionarla.  Santifica l’ordinario. In una lettera da Parigi nota che le stravaganze «fanno bello il mondo» (1615). Eppure nel suo canzoniere è così forte la presenza della notte (amica «de’ ladri e degli amanti»), del sonno che dà conforto, che ci viene un sospetto. Non sarà che la sua aspirazione più profonda, al di là di questo sfibrato arsenale di preziosità e meraviglie, non sia quella della quiete? Marino vuole soprattutto dormire, riposare, assopirsi nella notte salvifica e celestiale, in una felicità immemore: «Quest’animata Notte/ ch’avolta in nera veste/ ricopre il biondo crin di bruno velo/ non da le stigie grotte/ma dal balcon celeste/non da l’abisso vien, ma vien dal cielo/(…)». Ecco, la notte per lui viene dal cielo, non dagli abissi. Qui la “meraviglia” corrisponde a una diversa percezione della realtà, dunque a un atto conoscitivo.

Filippo La Porta

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