La prossima estate Edgar Morin compirà cento anni, essendo nato a Parigi l’8 luglio 1921 da una famiglia di origini livornesi. Filosofo multidisciplinare, autore di innumerevoli opere, che spaziano dalle scienze umane alla riflessione politica, è stato uno dei protagonisti del ventesimo secolo gettando il suo sguardo acuto sul terzo millennio, disponibile a misurarsi con le nuove avventure dello spirito secondo una disposizione profondamente vitale, tesa alla partecipazione militante, in un paradigma non conservativo, bensì pronto a un continuo riposizionamento nei confronti della realtà.
La sua lunga vita sembra essere stata la dimostrazione più forte di tale consapevolezza riguardo all’energia dell’errore, secondo una vecchia definizione di Viktor Sklovskij. In linea con l’approccio umanistico di quelli che Morin definì i “sette saperi” dell’educazione del futuro, primo fra tutti una sorta di disincanto conoscitivo: il che, da solo, butterebbe giù come birilli le cosiddette abilità o competenze (famigerate skills) che la cultura della verifica, trionfante nel mondo occidentale, pretenderebbe di certificare (perfino in era Covid).
Ne troviamo conferma in un libro straordinario appena tradotto in italiano con rigore e pazienza da Riccardo Mazzeo: I ricordi mi vengono incontro (pp. 702, Raffaello Cortina Editore, 34 euro), titolo criptoproustiano particolarmente adatto a sottolineare la rinuncia all’illusione di poter dominare la nostra memoria quasi fossimo dei generali che osservano il proprio passato dalla tenda-comando posta in altura. Trafelati arrivano i messaggeri con mostrine e medaglie, coccarde e fotografie, diari e documenti, come garanzie di verità: invece queste testimonianze materiali e psichiche dicono sempre il falso. Ciò che abbiamo fatto nella vita, gli incontri avuti e mancati, le esperienze belle e brutte, i passi sbagliati e quelli vittoriosi, sarà sempre compreso in un magma incandescente, una sabbia mobile dove potremo affogare. Se vogliamo capirci davvero qualcosa, dovremo correre il rischio di annaspare al suo interno. Insomma la posizione da scegliere non dovrà essere quella di Napoleone, che si dispone a giocare la sua partita a scacchi davanti ai soldati che muoiono, ma di Kutuzov, il generale russo che lo sconfisse, pronto ad aprire porte e finestre facendo entrare il nemico in casa: il che, per un francese, ancora oggi, resta una mossa eccentrica, se non addirittura rivoluzionaria.
Morin, nel rievocare in piccoli capitoli molto incisivi la sua vicenda biografica segnata da tutti i grandi eventi del ventesimo secolo, va e torna indietro, come fanno i cani quando ci seguono nel sentiero. E questo è bellissimo. Lui appartiene, ci tiene a precisarlo, alla famiglia di Jean-Jacques Rousedseau. Punta alla confessione, non al referto. Il suo procedimento sgangherato ci trascina dentro il fuoco di un tempo appena trascorso eppure già molto distante, mischiando piccola e grande Storia. La nascita quasi miracolosa dopo il parto molto difficile, una drammatica infanzia segnata dalla morte della madre, l’adolescenza delle voraci letture, il Fronte Popolare, le dittature, gli anni della Seconda guerra mondiale, la Resistenza, l’anno zero della Germania, la frantumazione delle coscienze, il surrealismo, la Spagna, l’Italia, amatissima («Io voglio soltanto essere riconosciuto come orfano di questa Toscana dove avrei voluto vivere, dove per poco non ho vissuto»), i garofani di Lisbona, la Polonia comunista, la rivista “Arguments”, Mitterand, Marguerite Duras e Robert Antelme, Jean Paul Sartre, Roland Barthes, l’antistalinismo, il Cnrs, New York, il cinema, con una passione smodata per i western, Parigi, il teatro, la politica, la letteratura, le spose, le figlie, le amanti, gli innumerevoli amici, i viaggi, le conferenze, il Marocco, l’Algeria… Liste di film, libri, concerti, spettacoli… In particolare l’attrazione per l’America Latina diventa una costante in quest’uomo affascinato dai sincretismi, dal meticciato, pronto a lasciarsi trafiggere dal punto di vista altrui, senza mai rinunciare al proprio, né credere di avere in pugno chissà quali certezze o segreti o parole d’ordine.
Restano negli occhi come un medaglione novecentesco le splendide pagine dedicate a Berlino nel 1945 col Reichstag incendiato e la natura che ricresce cieca sulle sue rovine: «Restavo immobile, commosso fino alle viscere dalla morte che mi circondava, ma commosso anche dolcemente dalla fulgida estate… Ciò che non si poteva allora concepire è che dal cadavere della grande capitale sarebbero nate due città, nate da due inseminazioni artificiali, differenti, gemelle totalmente eterozigoti, ma separate fin dalla nascita e che, nonostante il loro legame, si allontanavano l’una dall’altra in galassie nemiche».
Edgar Morin non intende consegnare al lettore un prontuario di buoni comportamenti. Egli ci spinge piuttosto al confronto quotidiano sapendo che la lotta fra Eros e Thanatos non finirà mai se non al termine dell’universo: «E so che nel più profondo di me stesso, e definitivamente, devo non solo scegliere il partito di Eros senza illudermi, consapevole che non scacceremo mai le tenebre e che la torcia che ci illumina ci rivelerà inevitabilmente l’immensità dell’ombra e della notte».