Antonio Bassolino, dirigente del Pci e poi dei Ds, è stato uno dei sindaci-bandiera della leva ormai leggendaria del 1993. La sua candidatura a Napoli – parallela a quella di Francesco Rutelli a Roma, Massimo Cacciari a Venezia, Enzo Bianco a Catania, Leoluca Orlando a Palermo e altri – portò una ventata di novità, di capacità, di leadership che impresse una svolta alle amministrazioni locali. Che per la prima volta eleggevano direttamente i sindaci. Gli abbiamo chiesto di ripercorrere quelle pagine di storia, con uno sguardo rivolto ad oggi.

Che ricordo ha delle elezioni del 1993, trentuno anni fa?
«Quella della primavera del 1993 fu una vera svolta. Nasceva per la prima volta l’elezione diretta dei sindaci, e con quella legge arrivava per la prima volta il doppio turno che consentiva al ballottaggio una battaglia importante. Con sfide che diventavano dei duelli, fatti con reciproca correttezza. A Napoli era il mio duello con Alessandra Mussolini. A Roma quello di Rutelli contro Gianfranco Fini. Duelli resi ancor più epici dalla televisione».

Quelle furono anche le prime elezioni in real time televisivo.
«Sì. Furono anche le prime elezioni mediatiche, con duelli nazionali in tv ogni sera. Ma non furono soltanto elezioni mediatiche: furono elezioni con forte rapporto con il territorio. Ricordo ancora oggi la campagna elettorale fuori dalle fabbriche: all’ingresso, la mattina presto, c’erano gli operai che si fermavano con me. C’erano comizi improvvisati al mercato, tra i banchi di frutta e verdura. Tanti incontri umani, tante strette di mano, anche casa per casa… »

Beh, porta a porta nelle grandi città mi sembra difficile…
«E io invece ogni sera andavo in due o tre case napoletane. Perché sentivo di dovermi confrontare con le persone, di dover ascoltare la città, senza telecamere. Faticoso, come impegno, ma fu molto importante».

E politicamente, quali erano le novità?
«Tante. Ne cito una: fu decisiva – come facemmo soprattutto noi a Napoli – l’iniziativa di dare i nomi della Giunta prima del voto di ballottaggio. Senza guardare agli accordi per il secondo turno e risparmiando tutto il tempo che altrimenti si sarebbe poi perso – settimane e settimane – nelle trattative per fare la Giunta dopo il voto. Sceglievamo i nomi di donne e uomini con competenze importanti, di primo piano».

 

Ci fu anche una stagione di stabilità, finalmente.
«Una svolta, nel sistema elettorale e nel metodo. Nel senso della stabilità amministrativa, con la legge del mandato di cinque anni. E con un rinnovato principio di responsabilità: diritti e doveri del sindaco, che doveva stabilire un rapporto diretto con i cittadini. Io ti voto e tu rispondi a me. Spesso si parla di personalizzazione in senso negativo, ma c’è anche un senso positivo. Un senso di umanizzazione della politica».

Cambiò tutto l’approccio eletto-elettore, più diretto?
«Il sindaco eletto dai cittadini doveva portare con sé concretezza e progetto. Attenzione ai piccoli problemi di vita quotidiana, del trasporto, della sicurezza, della vivibilità della città. Facemmo anche scelte delicate: con progettualità che riguardavano anche il rapporto tra pubblico e privato. Noi chiudemmo la centrale del latte a Napoli e a Roma, Rutelli mise in vendita le quote della centrale del latte…»

C’era un filo diretto tra voi sindaci, vi parlavate?
«Abbiamo avuto un forte rapporto tra noi, ci scambiavamo esperienze. C’era Bianco a Catania, Orlando a Palermo, Formentini a Milano, Cacciari a Venezia. Ci vedevamo tra tutti, facevamo squadra in qualche modo anche a prescindere dalle appartenenze di partito. Furono stabilite scelte fondamentali: a Napoli un minuto dopo essere stato eletto, ho detto che sarei stato il sindaco di tutti».

Si percepiva, essere parte di una pagina di storia?
«Abbiamo inaugurato un ciclo nuovo. Come quello della pratica della collaborazione tra istituzioni. Io da sindaco dialogavo con tutti, da Berlusconi a Prodi. E lo stesso ho poi fatto quando ero presidente della Regione».

Oggi c’è più dialettica, più polemica tra Governo, Regioni e Comuni?
«E’ del tutto legittimo che vi sia qualche occasione di conflitto: ma la dialettica del conflitto deve stare dentro a un confine da non superare. Se si supera questo limite nel rapporto maggioranza-opposizione, allora va richiamato quel mio vecchio maestro con la barba che diceva: “C’è una comune rovina delle classi in lotta”».

Certo in queste elezioni 2024 non vediamo all’orizzonte non dico nuovi Marx, ma neanche i futuri Bassolino…
«Oggi c’è un contesto diverso da allora. Sono passati trent’anni dal 1993, e vent’anni dalla fine del nostro secondo mandato. In quel ‘93a erano due le principali istituzioni in campo: Comuni e governo nazionale. C’era una particolare energia propulsiva. Poi è arrivata l’elezione diretta del presidente della Regione, e con il potere crescente (sanità, Covid) delle regioni, è cambiata tutta la percezione».

Anche quella dei cittadini verso i sindaci, che hanno perso carisma e autorevolezza.
«Da allora è cambiato il mondo, è cambiato tutto. La situazione è più complessa e ci dovrebbe essere un’adeguata attenzione della politica alle città, ai Comuni. I sindaci sono la prima e la più importante forma di rappresentanza della Repubblica. Chi indossa la fascia tricolore lo sa: ha su di sé la responsabilità più grande».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.