Era il 1996 e, pochi mesi dopo la vittoria alle elezioni, il primo governo dell’Ulivo nominava Enzo Siciliano presidente della Rai. Fin qui sarebbe stato tutto normale: l’esecutivo con gli ex comunisti a Palazzo Chigi sceglieva il presidente della televisione pubblica. Peccato che il neopresidente, come prima cosa, dichiarò di non guardare la televisione. Il contesto in cui questa affermazione venne pronunciata, così come il profilo intellettuale e culturale di Siciliano, rendevano questa posizione tanto paradossale quanto emblematicamente coerente. Fu un momento che rivelò profonde contraddizioni nel rapporto tra cultura alta, media di massa e istituzioni pubbliche.

Enzo Siciliano

Siciliano fu uno scrittore, critico letterario e giornalista. Nato a Roma nel 1934, si formò negli ambienti della letteratura italiana d’élite, collaborando con Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia. Quando fu nominato presidente della Rai, la sua figura rappresentava una scelta controcorrente rispetto alla tradizionale gestione dell’ente radiotelevisivo. La Rai, allora come oggi, viveva un’epoca di tensioni tra il suo ruolo di servizio pubblico e le crescenti esigenze di competizione commerciale imposte dalla nascita e dall’espansione delle televisioni commerciali, prime fra tutte quelle del gruppo Mediaset. In questo contesto Siciliano si affrettò a dichiarare che non guardava la televisione. La frase, riportata e amplificata dai media, suonò come una provocazione: com’era possibile che il presidente dell’azienda pubblica responsabile della produzione e trasmissione di contenuti televisivi non si interessasse al mezzo stesso? Alcuni interpretarono queste parole come un’ammissione di distanza o disinteresse, altri come una critica implicita alla qualità della programmazione televisiva italiana. Ma a nessuno, a sinistra, venne in mente di valutare se questa nomina fosse la più indicata per rilanciare il servizio televisivo pubblico.

Il messaggio di Siciliano

È sicuro che se una dichiarazione di questo tipo fosse stata fatta da un presidente nominato dal governo Berlusconi, metà Parlamento ne avrebbe chiesto le immediate dimissioni per manifesta incompetenza. Ma non andò così. La dichiarazione fu difesa da una parte importante della sinistra e ritenuta coerente con il suo pensiero. Secondo questa lettura Siciliano non intendeva banalmente sminuire l’importanza del mezzo televisivo, ma riflettere sull’eccessiva invadenza che esso aveva assunto nella vita quotidiana degli italiani e – soprattutto – sulla povertà culturale che caratterizzava molte delle sue trasmissioni. A suo parere, la televisione si era trasformata in un “colosso di banalità” più preoccupato degli indici di ascolto che della missione culturale e pedagogica che avrebbe dovuto avere. La sua posizione non era una condanna totale del medium, bensì un’esortazione a ripensare il ruolo della televisione pubblica. Peccato che in quegli anni la TV rappresentasse non solo il principale intrattenimento per milioni di italiani, ma anche una fonte primaria di informazione e formazione culturale.

Le motivazioni

La sua nomina fu presentata come un tentativo di riportare l’azienda a un ruolo più alto e nobile, ma anche come un’operazione che si proponeva di ribaltare dinamiche politiche e industriali troppo radicate. Purtroppo questo non accadde e la dichiarazione di Siciliano apparve solo un gesto elitario, un rifiuto di abbassarsi al livello del pubblico medio. Tuttavia Siciliano cercò di giustificarsi in diverse occasioni, spiegando che il suo intento era quello di provocare una riflessione collettiva sul ruolo che la televisione avrebbe dovuto svolgere nella società, sottolineando come il servizio pubblico non potesse limitarsi a competere sul terreno dell’intrattenimento, ma dovesse essere un faro di educazione e cultura. La dichiarazione generò un acceso dibattito. Da un lato vi furono coloro che appoggiarono Siciliano, riconoscendo la validità della sua critica alla deriva commerciale e spettacolare della televisione italiana; dall’altro molti lo accusarono di ipocrisia e inadeguatezza. Com’era possibile che il presidente della Rai non si confrontasse direttamente con ciò che la sua azienda produceva?

Alcuni commentatori interpretarono la sua posizione e la sua nomina come un segno di totale disconnessione della politica dalle esigenze di garantire una guida competente alla principale industria culturale del paese. La vicenda si concluse con la sua uscita di scena anticipata nel 1998, ma il suo gesto fu visto da molti come un fallimento comunicativo e una provocazione fine a sé stessa. Rimane un esempio di quanto sia importante, soprattutto per le istituzioni culturali, interrogarsi sul proprio ruolo e sulla propria funzione sociale.

Tullio Camiglieri

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