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Ergastolo, la pena statica che guarda solo al passato
Soffermiamoci in primo luogo sull’idea di ergastolo, tralasciando, cioè, i profili delle sue (più o meno effettive) mitigazioni. Si tratta di verificare, dunque, quale modello della risposta al reato esprima l’ergastolo e come esso si collochi nella prospettiva della prevenzione. Appare utile muovere da un presupposto: il reato, in quanto fatto storico, è irrimediabile. Si tratta, peraltro, di una caratteristica della condizione umana, nel cui ambito nulla torna indietro. Rispetto al reato potrà essere possibile una qualche riparazione dell’offesa, come potrà darsi il promuovere la revisione critica, e la modificazione, delle condotte che l’abbiano prodotto: fino a una ricomposizione dei rapporti personali e sociali che abbia incrinato. Tutte cose le quali, comunque, guardano in avanti. Dopo una frattura dei suddetti rapporti, ciò che può risultare proficuo è solo l’attivare qualcosa di opposto rispetto alla logica che le soggiace.
Onde contrastare il riproporsi della medesima logica nel futuro. La gestione costruttiva dei problemi che coinvolgono l’agire umano ha natura dinamica. Questo può valere, almeno in linea di principio, anche per la pena detentiva temporalmente definita, che dovrebbe perseguire intenti risocializzativi. Ma non vale per l’ergastolo, che rende irrimediabile anche il percorso esistenziale dell’individuo che abbia delinquito. È la pena statica per eccellenza, che guarda solo al passato. L’espressione estrema, a parte la pena di morte, di un mero intento retributivo. È la pena che rimuove ogni consapevolezza dei profili di corresponsabilità connessi, in modo più o meno intenso, a ciascun fatto criminoso: nel suo orizzonte, non c’è alcun approfondimento da compiere che collochi la posizione dell’autore di reato nella trama dei rapporti in cui ha vissuto; non c’è alcuna indicazione da trarre, di conseguenza, onde agire sul contesto in cui quel fatto è maturato.
Serve, tuttavia, la pena perpetua come monito sociale affinché non si delinqua? Rispetto ai reati di omicidio espressivi di odio, che resta l’ambito più classico delle condanne all’ergastolo (sebbene il nostro paese si collochi tra quelli a minor ricorrenza dell’omicidio volontario), l’irrilevanza in termini di deterrenza della minaccia sanzionatoria risulta palese: piuttosto, la ricerca dell’esemplarità attraverso la punizione massima finisce per oscurare, nei casi in cui il soggetto agente sia ritenuto imputabile, l’incidenza di stati psicologici complessi. Ma anche per quanto concerne i fatti gravi di criminalità organizzata, di tipo mafioso o meno, la ponderazione della pena edittale rispetto alla possibile impunità di quei fatti e dei ruoli di potere in tal modo conseguibili appare del tutto secondaria.
Il ricorso all’ergastolo
Di certo, invece, il ricorso all’ergastolo si colloca in un quadro che nega l’orientamento motivazionale delle sanzioni penali, costituente il fulcro della prevenzione generale in quanto rivolto a conseguire adesioni per scelta personale alla legalità, e avalla, attraverso l’enfasi della punizione senza speranza, il disinteresse circa la prevenzione primaria e, in genere, circa la politica criminale.
Tutte considerazioni, quelle che precedono, le quali hanno condotto, lo si sa, a smussare l’irrimediabilità dell’ergastolo, prevedendo che il condannato a simile pena, come esige la Corte europea dei diritti dell’uomo, debba poterne vedere la fine ove, dopo un lasso di tempo corrispondente a quello di lunghe condanne detentive, si constati una conseguita rieducazione (costituente, del resto, l’esito di maggior impatto generalpreventivo dell’esecuzione penale). Rimanendo con ciò il dato, però, che, mentre chi si vede inflitta una detenzione temporale pur lunga, può far conto, se la vita lo assiste, a una liberazione sicura, quest’ultima rimane incerta per l’ergastolano. È davvero necessario, tuttavia, non andare oltre simile soluzione compromissoria? Alcuni richiameranno, in proposito, l’esigenza di tener conto della ragione stessa che giustifica il perseguimento, in certi casi, del fine rieducativo senza che si rinunci alla restrizione della libertà: vale a dire la probabilità, altrimenti, della recidiva di reati gravi (secondo una logica di extrema ratio, peraltro, ben lungi dall’essere attuata). Ora, potrebbe permanere tale probabilità anche dopo molti o moltissimi anni? Vi sono effettivamente reati per i quali è da reputarsi indispensabile prevedere che la pena non abbia termine se la rieducazione del condannato non risulti comprovata (posto che, fuori dal caso dell’ergastolo, ciò non è richiesto, comportando il fine rieducativo un orientamento ad esso conforme dei contenuti sanzionatori, ma non un obbligo di risultato, che aprirebbe a derive illiberali)? Del resto, l’aleatorietà del fine pena non potrebbe, invero, compromettere l’impegno del condannato a rieducarsi?
È noto che le commissioni ministeriali Pisapia (per la riforma del codice penale) e Palazzo (per la riforma del sistema sanzionatorio penale) avevano operato proposte de iure condendo: la prima sostituendo l’ergastolo con una c.d. pena di massima durata, ricompresa tra i 28 e i 32 anni di reclusione (elevabili fino a 38 anni in caso di concorso con reati essi pure punibili con tale pena), ma con possibili riduzioni all’esito di verifiche periodiche circa i risultati dell’osservazione della personalità del condannato; la seconda – dopo aver evidenziato un orientamento dei commissari contrario a mantenere la pena in oggetto, tuttavia conservata per mere ragioni di praticabilità politica delle proposte di riforma – limitando l’ergastolo ai soli casi di concorso tra più reati puniti con l’innovativa detenzione speciale da 24 a 28 anni, ma prevedendo nel contempo l’estinzione dell’ergastolo stesso dopo 30 anni, salvo il permanere di esigenze di prevenzione speciale da rivalutare con periodicità almeno annuale.
Riterremmo necessario, peraltro, giungere a stabilire, in base all’impianto dei princìpi costituzionali, che la pena detentiva inflitta debba avere sempre un termine massimo (umanamente realistico) predeterminato, oltre il quale non possa protrarsi secondo le forme sue proprie e le relative modalità esecutive. Salvo introdurre, nei casi corrispondenti a quelli oggi puniti con l’ergastolo, forme di controllo anche stringenti da rivalutarsi nel corso del tempo (oggi maggiormente praticabili rispetto al passato), circa condannati per i quali risulti in concreto che, nel momento del fine pena, possano tuttora rivestire ruoli attivi nell’ambito di attività criminose gravi. E, comunque, appare necessario intervenire sulle norme stesse che oggi comportano, circa l’ergastolo c.d. ostativo, un’irrimediabilità della condanna difficilmente superabile, per il detenuto non collaborante, sulla base dei requisiti richiesti dal d.l. n. 162/2022, convertito ai sensi della l. n. 199/2022: recuperando, rispetto alla fase esecutiva della pena per reati ostativi, la regola ordinaria, valida in sede processuale, per cui la collaborazione di giustizia viene incentivata applicando disposizioni premiali e non prevedendo deroghe al regime ordinario dell’esecuzione stessa. Ferma, ovviamente, ogni accuratezza nella valutazione inerente ai percorsi rieducativi.
Anche il superamento della logica dell’ergastolo è proprio di una società che non semplifica il problema della prevenzione dei reati e che, non recidendo la speranza per il condannato di un ritorno alla vita non detentiva, riafferma la strutturale diversità dell’approccio all’umano che essa intende perseguire rispetto alle fratture dei legami di solidarietà che tante volte constatiamo e che invero, se allarghiamo lo sguardo sul mondo, solo assai marginalmente sono intercettate dal diritto penale.
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