Esteri
Europa in scacco, la strategia che non c’è: il gioco di Trump, l’illusione della fermezza e la partita commerciale
Stefan Zweig lo aveva capito con lucidità. Non basta ripetere le mosse già conosciute per vincere una partita a scacchi: ogni mossa cambia la dinamica, e l’avversario può sempre sorprendere. È questa la lezione della sua Novella degli scacchi, una riflessione che oggi risuona con forza nella geopolitica globale. I personaggi di Zweig sembrano la trasposizione letteraria di alcune delle figure che dominano lo scenario internazionale. Nel racconto, ambientato su una nave diretta da New York a Buenos Aires negli anni Trenta, si fronteggiano due giocatori molto diversi. Il campione del mondo è un uomo rude, privo di cultura, interessato solo al denaro, ma con un talento naturale: sa vincere osservando la scacchiera, senza aver mai studiato una strategia codificata.
Il suo avversario, il colto Dr B, è tecnicamente più forte, ma ha un limite fatale: ha imparato a giocare da solo, memorizzando ogni partita di un manuale. Quando si trova di fronte a un avversario imprevedibile, crolla. La sua conoscenza enciclopedica non gli serve: manca la capacità di adattarsi. Zweig ci lascia un messaggio chiaro: la vittoria non è solo una questione di logica o memoria, ma di anticipazione. Esistono giocatori brillanti che si affidano alle formule del passato, e altri che invece comprendono le debolezze dell’avversario e le sfruttano senza pietà. In politica, come negli scacchi, chi si attiene agli schemi rischia di soccombere contro chi sa cambiare le regole del gioco.
Il gioco di Trump
Donald Trump non è un intellettuale, né un fine conoscitore della storia europea. Confonde eventi, ignora i dettagli, non si preoccupa delle inesattezze. Quando ha affermato che l’Unione Europea è nata “per fregare gli Stati Uniti”, il suo unico ripensamento è stato per la parola usata, non per il concetto espresso. Cercare di correggerlo è inutile. Quello che conta è anticipare la sua prossima mossa. Noi europei, invece, continuiamo a rimanere un passo indietro. Invece di pianificare il futuro, ci limitiamo a ribadire principi astratti. Diciamo che la Russia deve ritirarsi da tutti i territori occupati, che il regime di Putin deve cadere. Ma chi dovrebbe occuparsene? Quali strumenti abbiamo per influenzare davvero il corso della guerra? La realtà è che non siamo preparati. Non abbiamo investito nella difesa, non abbiamo una strategia chiara, e soprattutto non abbiamo risposte alle domande più difficili. Se Putin, sentendosi alle strette, decidesse di alzare la tensione con un’escalation nucleare, cosa faremmo? Già nel 2022 la CIA aveva considerato credibile lo scenario di un test atomico nel Mar Baltico. Un’esplosione sottomarina potrebbe generare uno tsunami, contaminare le coste, rilasciare scorie radioattive. Eppure, invece di prepararci a simili eventualità, ci limitiamo a ripetere formule come faremo tutto il necessario per sostenere l’Ucraina.
L’illusione della fermezza
La frase, resa celebre da Mario Draghi per salvare l’euro, funzionava bene in finanza. Ma la guerra ha vincoli diversi: materiali, politici, economici. Non possiamo davvero fare tutto il necessario, perché le nostre democrazie hanno limiti strutturali che non possono essere ignorati. Così, al posto di una strategia, mettiamo in scena gesti simbolici. Nell’ultimo Consiglio europeo, i leader si sono alzati in piedi per abbracciare Volodymyr Zelensky. Un’immagine studiata per contrastare la freddezza mostrata da Trump alla Casa Bianca. Ma le immagini non cambiano la realtà. E la realtà è che le mosse europee, finora, sono state solo reazioni agli eventi, mai anticipazioni. Trump, invece, sa benissimo cosa vuole. Dopo aver osservato Zelensky, ha concluso che l’Ucraina non è pronta per un accordo di pace. Le parole della premier danese Mette Frederiksen, secondo cui una pace in Ucraina potrebbe essere più pericolosa della guerra, hanno rafforzato questa convinzione. Così, gli Stati Uniti hanno congelato gli aiuti militari e ridotto la condivisione di intelligence con Kiev. L’Europa reagisce con sorpresa a ogni mossa di Trump, ma in realtà non c’è nulla di imprevedibile. E il rischio è che il peggio debba ancora arrivare. Trump potrebbe limitare il supporto NATO, ritirare truppe dall’Europa, mettere in discussione l’impegno americano all’Articolo 5. O persino avvertire i cittadini statunitensi di non viaggiare in Europa, destabilizzando l’economia. Qualcuno ha pensato a come rispondere?
La partita commerciale
Ma il gioco non si limita alla guerra. Il 2 aprile scatteranno nuovi dazi imposti dagli Stati Uniti, e Trump potrebbe alzare ulteriormente la posta. Ha minacciato tariffe del 25% sui beni europei, e l’UE ha promesso di rispondere. Ma siamo sicuri di poter vincere questa partita?
La strategia colpo su colpo è disastrosa contro un avversario preparato. E nel commercio, a perdere è sempre chi ha il surplus maggiore. L’Europa esporta verso gli USA oltre 200 miliardi di dollari in più di quanto importa: è evidente chi avrebbe più da perdere in una guerra commerciale. La vera risposta strategica sarebbe ridurre questa dipendenza, ma finora nessuno ha avuto il coraggio di affrontare il problema alla radice.
L’Europa senza strategia
La cosa straordinaria è che la strategia l’abbiamo inventata noi. Niccolò Machiavelli, Metternich, Talleyrand, Clausewitz: l’arte della diplomazia e della guerra è nata in Europa. Eppure, oggi sembra scomparsa dalla politica. Parliamo di relazioni—tra Europa e Stati Uniti, tra UE e Regno Unito—ma non di interessi strategici. Eppure, senza strategia, le relazioni non bastano. Zweig scrisse la sua Novella degli scacchi nel 1941, quando l’Europa aveva già perso la sua partita contro Hitler. Il suo racconto parlava di un mondo vecchio, destinato a soccombere di fronte a una forza più spietata e pragmatica. Oggi il rischio è lo stesso. La partita è in corso. E l’Europa è di nuovo in scacco.
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