Se tratti l’Italia degli anni settanta come il Cile di Pinochet e quello di oggi come un regime che vuol mettere le manette a un gruppo di pensionati dopo quarant’anni dai processi solo per usarli “come spaventapasseri” a fine di politica interna, come ha fatto un gruppo degli intellettuali francesi, il minimo che ti possa capitare è di beccarti la risposta piccata non di un fascista sovranista, ma di un liberale come Angelo Panebianco, sul Corriere della sera. E se la ministra Marta Cartabia, cioè colei che fin dal primo giorno della sua nomina si è distinta da ogni predecessore guardasigilli per aver indicato i limiti dell’uso della pena come identificazione con il carcere, stipula un accordo con il suo omologo francese per ottenere l’estradizione di un gruppo di condannati italiani per fatti di 40-50 anni fa in nome di un’astratta “giustizia” e della necessità di “fare chiarezza” per poi poter giungere alla “riconciliazione”, non può che aspettarsi che qualcuno metta i puntini sulla “I” sul senso della pena. Ci pensa il professor Giovanni Fiandaca, sul Foglio.

Non è stato un fatto da poco, quello che si è aperto nei giorni scorsi con il fermo, subito convertito in libertà vigilata, a Parigi, di un gruppo di italiani che negli anni Settanta erano stati protagonisti di fenomeni di lotta armata e in seguito condannati per gravi reati. Cui va aggiunto il caso particolare di Giorgio Pietrostefani, che, oltre a essere il più anziano del gruppetto, con il terrorismo non c’entra niente e deve rispondere dell’omicidio Calabresi in seguito a un processo fondato esclusivamente sulla parola del pentito Marino. Non è un fatto da poco, quel che è successo, ed è sorprendente che il governo Draghi e la ministra Cartabia siano riusciti a creare una smagliatura nella famosa “dottrina Mitterand” che si era perpetuata in seguito con altri tre Presidenti, di destra e di sinistra, fino a Macron. Vedremo se e in che modalità e in che misura questo fatto modificherà le relazioni tra Italia e Francia e forse anche gli stessi rapporti di forza all’interno dell’Unione Europea. Sicuramente il peso specifico di un personaggio come Mario Draghi è stato determinante.

Angelo Panebianco coglie l’occasione della lettera che gli intellettuali francesi hanno inviato al presidente Macron per fare il punto sulla solidità dell’Unione europea. Il testo, firmato da famosi scrittori, registi, filosofi, liscia non poco il pelo al proprio governo, esibendo il “ma quanto siamo bravi noi” rispetto a un Paese come l’Italia che ha condotto processi ingiusti (vero) nei confronti della sinistra, mentre i due terzi dei fatti terroristici sarebbe imputabile alla destra (e questo è falso, le proporzioni vanno rovesciate). Ma soprattutto ricorda il fatto che la “dottrina Mitterand” ha consentito a queste persone rifugiate a Parigi di cambiare vita e anche di diventare, loro e i loro figli, dei bravi cittadini francesi. Panebianco ritiene che questi argomenti, un po’ sciovinisti, ma anche i sentimenti di non amore nei confronti dell’Italia che ne emergono, siano da noi ricambiati (insieme all’odio anti-tedesco, forse rimasuglio dei ricordi di guerra) e siano la dimostrazione della debolezza dell’Unione Europea. La cui fragilità sarebbe dimostrata dall’insorgere di tanti partiti e movimenti sovranisti in vari Paesi europei.

Panebianco non è un giurista e non entra nel merito dell’operazione politico-giudiziaria portata a termine dalla ministra Cartabia e dal suo omologo Eric Dupond- Moretti. Si intuisce però una sua perplessità critica nei confronti della scelta fatta un tempo dal presidente Mitterand. Che sottintendeva non solo la necessità di avere in casa persone non portate a delinquere (obiettivo raggiunto), ma anche un giudizio negativo sul metodo con cui i tribunali italiani amministravano (e tuttora amministrano, possiamo aggiungere) la giustizia. È questo un punto di cui pare che né i magistrati né i governi italiani di diverse parti politiche paiano voler prendere atto.

Così, invece dell’auspicato cambio di passo dell’Italia, assistiamo oggi, come riconosce lo stesso professor Fiandaca (che pare dare un valore positivo all’evento), alla novità che «la Francia sia ormai disposta a riconoscere che pure l’Italia ha le carte in regola come stato di diritto». Sarà forse perché ormai anche il governo di Macron ha messo mano a leggi speciali antiterrorismo. Ma purtroppo le nostre carte non sono in regola, o almeno non lo sono del tutto. Gli stessi processi ai terroristi, giudicati da contumaci, spesso condannati solo sulla base della parola dei pentiti, sono lì a dimostrarlo. Per non parlare di quel che è accaduto, e continua ad accadere, nelle inchieste di mafia, e sorvolando sugli anni di tangentopoli e di Mani Pulite.

Il ragionamento svolto comunque nel suo articolo sul Foglio da Giovanni Fiandaca è uno di quelli che, se seguito e reso ricco di conseguenze pratiche dal governo, dal parlamento e dalla stessa magistratura, sicuramente condurrebbe per mano l’Italia verso una maggiore osservanza delle regole di un vero Stato di diritto. Il caso dei terroristi fermati in Francia, dopo 40-50 anni dai fatti per cui sono stati condannati, pone la domanda: a che cosa serve punirli oggi? Cioè punire persone nei cui confronti lo scopo stesso della pena come previsto dall’articolo 27 della nostra Costituzione è già stato raggiunto con il loro perfetto reinserimento nella società? Se la pena ha un fine soprattutto di “utilità sociale”, cioè di prevenzione dei reati, il discorso è già chiuso. Ma se invece si dovesse tornare alla teoria, oggi minoritaria negli studiosi del diritto, della funzione “retributiva” della pena (cioè ti sanziono perché tu devi ricambiare allo Stato e anche alle vittime il male che hai fatto, il dolore che hai prodotto), allora anche la retata parigina avrebbe un senso. Che però somiglierebbe molto alla vendetta. A un’idea di giustizia che parrebbe dover essere il contrario della filosofia dichiarata e dimostrata nella sua attività alla Corte Costituzionale da Marta Cartabia.

Però, osserva Giovanni Fiandaca, le dichiarazioni della Guardasigilli all’indomani dei fermi di Parigi sembrano più essere inscritte nel concetto di giustizia “retributiva”. Ha detto la ministra che le estradizioni sono necessarie per “fare chiarezza”, come preludio alla “conciliazione”. Ma in concreto che cosa avrebbero ancora da chiarire questi pensionati? Pietrostefani dovrebbe ribadire la propria dichiarazione di innocenza e di estraneità all’omicidio Calabresi, e gli altri dovrebbero confermare la propria commissione di reati come ha fatto Cesare Battisti? Oppure dovrebbero contestare le accuse e aprire un gioco di specchi infinito che avrebbe il compito di ritrarre persone sempre più vecchie, incollando le loro immagini a quelle di quarant’anni fa?

Dovrebbero venire in Italia e poi sperare che qualche parente delle vittime sia disponibile, come qualcuno ha già fatto, a un percorso di “conciliazione” tra anziani? E poi veramente il nostro Paese non aspetta altro che vedere, tra qualche anno (i tempi non saranno brevi) gli ottantenni sopravvissuti sbarcare a Malpensa o Fiumicino davanti alle telecamere? Perché i casi sono solo due, e non hanno nulla a che fare con la giustizia. O quella retata di pensionati è servita a rafforzare i rapporti tra Italia e Francia e lo stesso ruolo del nostro Paese in Europa, e lo scopo è forse stato raggiunto. Oppure è stata solo un fatto mediatico, e allora chiudiamola lì.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.