L'esultanza italiana e le leggi d'emergenza
Arrestare i rifugiati politici non ci fa chiudere i conti con la storia del terrorismo italiano
Gli arresti di Parigi e la nostra smemoratezza. Abbiamo lasciato aperto un capitolo tragico della nostra storia, quello degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, dopo aver chiuso a fatica, e non del tutto, quello del fascismo.
Neppure quando fu arrestato e processato l’ex capitano delle SS Enrich Priebke, il nostro Paese e il nostro sistema giudiziario seppero dimostrare la capacità di fare i conti con la propria storia. Perché non si seppe capire né far capire che non si stava giudicando una persona responsabile (per ordini ricevuti o dati) di migliaia di morti, ma un vecchio di 84 anni che aveva già da solo dato un orientamento diverso della propria vita. Lo aveva capito e realizzato Palmiro Togliatti con l’amnistia del 1946. Dopo di lui non ci sarà più un ministro di Giustizia capace di tenere insieme il proprio vissuto soggettivo, la propria memoria e i conti con la storia.
Il contrario di quel che fece Togliatti è stata – è ancora – la politica delle emergenze. L’Italia ha vissuto il fascismo e la resistenza (all’interno della quale ci furono anche atti individuali crudeli, violenti e ingiusti), e poi, negli anni Settanta, che, non dimentichiamolo, furono anche momenti di grandi iniziative riformatrici, la sovversione sociale, una cui parte divenne terrorismo. Non si possono trattare il rapimento e uccisione di Moro e della sua scorta, gli assassinii e ferimenti di decine di uomini politici, magistrati e giornalisti come singoli episodi da giudicare nei tribunali. Il terrorismo è stato un fenomeno tragico della politica e della società. Ripeto, della società. Lo ha capito bene uno che non è certo stato amico di coloro, in gran parte di sinistra, che avevano preso le armi, come Vittorio Feltri, che ha ricordato un tragico applauso in un’assemblea di lavoratori alla notizia del rapimento di Moro. Purtroppo ho anch’io un ricordo analogo, di singole persone, in un ambiente di sinistra non estremistica come era quella de il Manifesto.
Fare i conti con il proprio passato, anche il più negativo, il più drammatico, vuol dire aiutare a ricucire lo strappo che qualcuno ha attuato nei confronti della propria comunità. Ricucire per ricostruire non c’entra niente con il perdono, che è un fatto individuale e intimo e che attiene alla relazione di una persona con un’altra. È anche il contrario della cancel culture, che è invece un gesto di violento revisionismo, portato solo a distruggere, a separare, quasi a straniare anche il proprio vissuto. La politica della ministra Marta Cartabia, nella sua attività di costituzionalista, la sua consapevolezza del fatto che non possa essere il carcere la soluzione di ogni lacerazione, fino al punto di dare battaglia all’ergastolo ostativo, è un insegnamento per tutti. Poi, certo, nella nostra memoria, esiste anche un fatto generazionale. Chi ha cinquant’anni o meno può essere indotto a pensare che la storia delle leggi speciali, la proclamazione di continui stati di emergenza siano iniziati con le stragi di mafia, con gli anni Novanta e con le uccisioni dei magistrati Falcone e Borsellino.
Se così non fosse, forse la guardasigilli Cartabia non potrebbe dire che i rifugiati arrestati nei giorni scorsi in Francia, sulla cui estradizione lei stessa insieme al Presidente del consiglio Draghi si è particolarmente impegnata, sono stati giudicati con processi giusti e con tutte le garanzie. Purtroppo non è così. Il che non significa affatto che stiamo parlando di innocenti. Non lo era, dal punto di vista processuale, Cesare Battisti, e probabilmente non lo è la gran parte di coloro che sono stati fermati e poi rimessi in libertà vigilata in questi giorni in Francia. Il problema è un altro. E cioè che le leggi speciali non sono in grado di fare giustizia. E non l’hanno fatta con le lunghissime custodie cautelari nelle carceri speciali di persone che saranno poi assolte, né con le leggi sul pentitismo, che pure hanno aiutato a sconfiggere il terrorismo sul piano puramente militare. Ma è stato ben più significativo il gesto del cardinal Martini quando ha ricevuto le armi da Ernesto Balducchi, un militante dell’Autonomia che era stato protagonista di quel fenomeno di “dissociazione” dalla lotta armata con cui centinaia di ex militanti avevano preso le distanze dalla violenza, senza la necessità di denunciare i propri compagni. Un’altra forma di quella giustizia riparativa che sta a cuore alla ministra. E che sarebbe un ottimo programma di governo.
È quello che stanno attuando, passo dopo passo, formazioni politiche come Nessuno tocchi Caino e che ha portato alla realizzazione del documentario Spes contra spem di Ambroglio Crespi nel carcere di Opera. E siamo arrivati alla seconda emergenza, quella dei reati di mafia. Non è cambiato molto, rispetto al metodo con cui si svolgevano le inchieste per i fatti di terrorismo. Leonardo Sciascia fu critico anche nei confronti del maxiprocesso di Palermo voluto da Giovanni Falcone. Chiariamo naturalmente che nessuno sta paragonando le persone, né i fatti, né le ideologie, laddove ci fossero. Ma processare i contumaci, contestare i concorsi morali (a Renato Curcio o a Totò Riina, il concetto è lo stesso), esibire come prove la sola parola dei pentiti: che cosa ha a che fare tutto ciò con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo?
Se poi fosse per caso arrivata notizia in terra d’oltralpe delle raccapriccianti controriforme prodotte negli ultimi anni dalla subcultura dei grillini e dell’ex ministro Bonafede, tese a equiparare i reati contro la Pubblica Amministrazione a quelli del terrorismo e della mafia, si capirebbe a maggior ragione perché la giustizia italiana sia vista con tanto sospetto negli altri Paesi dell’occidente. Un’ultima osservazione desidero indirizzare alla ministra Cartabia, nel nome della grandissima stima che ho personalmente nei suoi confronti. Lei si è spesa molto perché le autorità francesi mettessero in qualche modo le manette molto rapidamente ai polsi di dieci persone (sulle duecento italiane ancora rifugiate a Parigi e dintorni) condannate per fatti di sangue, appena prima che i reati cadessero in prescrizione, dopo quaranta o cinquant’anni dagli accadimenti. Le domando se ciò abbia un senso.
Le domando se ciò sia coerente con quella “possibilità di rieducazione e conciliazione” che lei giustamente vorrebbe concedere a chiunque, qualunque delitto abbia commesso. Ma quale miglior dimostrazione di rieducazione e conciliazione queste dieci persone (e tutte le altre) devono dare ancora, oltre al fatto di aver rispettato alla lettera per qualche decennio le condizioni poste dal presidente Mitterrand (e poi Chirac, Sarkozy e Hollande) non commettendo nessun reato e integrandosi perfettamente, mettendo su famiglia e lavorando, e sempre rigando diritto? O qualcuno pensa che deportare in Italia un gruppetto di pensionati e far loro assaggiare un po’ di galera serva a riparare il danno fatto e a far finta di niente su quei conti politici ancora aperti?
Certo, signora ministra, sarebbe tutto più facile se anche noi del Riformista ci comportassimo come stanno facendo in questi giorni da una parte i quotidiani più schierati con il centrodestra che applaudono con gli occhi chiusi purché vengano mandati in galera quelli di sinistra. E dall’altra parte il quotidiano più forcaiolo della sinistra, cioè il manifesto che, con un bell’editoriale di Tommaso Di Francesco, bolla la retata parigina come “la vendetta”. E riscopre improvvisamente, ma solo nei confronti della sinistra, il garantismo di un tempo, ahimè, antico. Noi non siamo così. Noi siamo quelli del “metodo Cartabia”. Fino a tre giorni fa, e speriamo ancora per il futuro.
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