Pensate se, all’improvviso, Facebook chiudesse le pagine di notizie che siete abituati a consultare ogni giorno e a ogni ora dai vostri supporti digitali. È quel che è successo la settimana scorsa in Australia. Nel paese dei canguri, Facebook ha impedito ai suoi utenti locali l’accesso a tutti i contenuti giornalistici, mentre gli utenti dal resto del mondo non hanno potuto condividere i link dei siti di notizie australiani. Il boicottaggio della compagnia digitale è stato un’azione di protesta contro il News Media Bargaining Code, legge unica nel suo genere che obbliga le grandi piattaforme tecnologiche a pagare gli editori per i contenuti delle notizie. Alla fine la legge è stata approvata mercoledì scorso con alcuni emendamenti che hanno convinto Facebook a riaprire i siti.

Che cosa prevedono gli emendamenti? In primo luogo, il governo stabilisce, con un mese di preavviso, le piattaforme soggette al codice. Queste possono poi stringere diversi tipi di accordi commerciali, offrendo compensi e trattamenti differenti agli editori. Alle piattaforme è stato però concesso più tempo prima di entrare nell’arbitrato vincolante: dopo tre mesi di negoziati, se ancora non c’è un accordo, cominciano due mesi di “mediazione”, rinnovabili una sola volta. In mancanza di accordo, dunque, l’arbitrato scatta dopo un massimo di sette mesi di trattative. Le piattaforme hanno comunque la facoltà di sospendere la diffusione di news: in tal caso, ovviamente, la legge non si applica.

Alla fine, tutti contenti: il governo ottiene di tutelare gli editori, imponendo alle piattaforme digitali di pagare i contenuti giornalistici ospitati sui loro servizi, mentre Facebook evita obblighi troppo gravosi. La legge dice molto sul futuro delle big tech e degli utenti dei media in tutto il mondo. Si sa: gli editori si lamentano da anni del fatto che i due giganti della tecnologia abbiano divorato montagne di dollari di pubblicità che tengono a galla le testate giornalistiche. Le aziende tecnologiche rispondono che, grazie a loro, i giornali guadagnano fama e, di conseguenza, inserzionisti. Il tema non è soltanto economico, ovviamente: toccare l’informazione significa toccare anche la democrazia. Ecco perché, dopo l’Australia, i legislatori e le autorità di regolamentazione di altri paesi, a partire dagli Stati Uniti, stanno esaminando sistemi di norme per far pagare a Facebook e Google una parte del costo della raccolta di notizie.

Uno dei più grandi fautori della legge, per esempio, è la News Corp di Rupert Murdoch, di gran lunga il più importante editore in Australia, che per anni ha fatto pressioni per un’azione politica contro le Big Tech. Proprio con Murdoch e con tutti i principali editori australiani, Google aveva stipulato un accordo economico già nelle settimane e nei giorni precedenti all’approvazione della legge. I contenuti delle testate di News Corp – tra questi: il Wall Street Journal, il New York Post e l’Australian – saranno infatti ospitati a pagamento su Google News Showcase, una sezione di Google News.

In un post sul suo blog, Nick Clegg, manager di Facebook, assicura che la società «è più che disposta a collaborare con gli editori di notizie». In ballo c’è un piano per pagare «almeno 1 miliardo di dollari in più» all’industria dell’informazione «nei prossimi tre anni». Una linea che conduce Facebook sulla strada già intrapresa da Google. Così come è probabile che molti altri paesi seguiranno l’esempio dell’Australia.

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