Celebrare i duecento anni dalla nascita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, nato a Mosca l’11 novembre 1821, significa riflettere sull’uomo contemporaneo, al tempo stesso lacerato dalla propria mancanza di certezze e ugualmente teso verso un sistema di valori in grado di dare senso alla vita. I suoi romanzi hanno contribuito a formare la coscienza occidentale e ancora oggi rappresentano il sentiero più prezioso per capire chi siamo e chi vorremmo essere, al punto tale che se un ragazzo di talento, ce ne sono tanti nelle nuove generazioni, ci chiedesse cosa leggere per diventare veramente adulto, gli dovremmo indicare la gloriosa serie dei capolavori maggiori, una sorta di scala santa verso la responsabilità: Delitto e castigo (1866), L’idiota (1869), I demoni (1871) e I fratelli Karamazov (1880), quest’ultimo pubblicato un anno prima della morte.

Ma se, per assurdo, un anziano desiderasse stilare un bilancio delle operazioni svolte, ci sentiremmo di suggerirgli la medesima lista. Anche perché un conto è scoprire Raskòl’nikov a quindici anni, come abbiamo fatto in molti, seguendo con il cuore in gola la sua avventura omicida sui pianerottoli umidi e puzzolenti di Pietroburgo, oppure, nella stessa regione anagrafica, immedesimarci nei vaniloqui pazzi e febbrili del principe Myškin, nel momento in cui viaggia semiaddormentato sui treni svizzeri. Un altro conto è partecipare al delirio insano di Stavrogin o interrogarci sull’incredibile ritorno di Cristo in Terra, presente nella Leggenda del Santo Inquisitore, dalla risacca dell’età adulta. Dostoevskij, prisma cangiante, muta prospettiva secondo le stagioni della nostra esistenza.

Questo scrittore sembra fatto apposta per esaltare gli spiriti inquieti e pungere quelli pacificati. Tuttavia sulla sua incontestabile centralità letteraria – insieme a Lev Tolstoj compone infatti, come sentenziò George Steiner, il dittico supremo della letteratura moderna – grava un potenziale equivoco che persino i più grandi interpreti hanno svelato senza riuscire a estirparlo dalla percezione popolare. Non basta studiare i manuali di Dmitrij Petrovič Mirskij per capirlo. A cosa vogliamo alludere? Dostoevskij è passato agli atti come l’esploratore del caos, colui che ci trascina negli inferi degli istinti più smodati. Giusto, ma non dovremmo mai dimenticare che l’individuo del sottosuolo, protagonista dell’omonimo romanzo del 1864, figlio scapestrato del giovane romantico e svagato che diciassette anni prima aveva popolato le notti bianche, rappresenta soltanto una tappa intermedia e provvisoria di una faticosa conquista di maturità incisa nella parabola dostoevskiana.

È vero che quello sventurato personaggio alla perenne ricerca di se stesso conosce la parte abietta che tutti noi vorremmo evitare, frequentatore assiduo della dimensione oscura che qualche tempo dopo il dottor Freud porterà alla luce, organizzando speciali visite guidate nell’inconscio con ingegnose scalette antincendio e apposite reti protettive. Dovrebbe del resto essere indubbio che Dostoevskij non si fermò lì, nel fondale da cui pure si sentiva irresistibilmente attratto. Per tutta la vita provò a andare oltre. Il suo pensiero, in questo aveva ragione Michail Michailovič Bachtin, era sempre in movimento. Ecco perché I fratelli Karamazov chiudono il cerchio, senza peraltro saldare la frattura: in quel grande romanzo, la storia di un parricidio, le ragioni e i torti si mischiano in modo inestricabile trasformando la responsabilità giuridica di ognuno in un patetico arnese da lavoro che gli uomini utilizzano per imbavagliare i mostri presenti al loro interno, i quali, inutile illudersi, non troveranno mai requie. La verità e la colpa, per chi non si accontenti dei codici, non stanno mai da una parte sola e ogni individuo, dal santo a quello della peggior risma, lo sappia o no, reca in sé un pezzetto dell’una e dell’altra.

Il vero esecutore del crimine, Smerdiakov, figlio illegittimo di Fedor, resta impunito: s’impiccherà dopo aver commesso l’assassinio, come se lo scrittore avesse scoperto in lui qualcosa di innominabile: lo scatto predatorio, il buio biologico. Avrebbe forse avuto il bastardo dei Karamazov, come viene sprezzantemente definito dalla voce del popolo, una vera alternativa? Dopo essere stato partorito da sua madre sul pavimento dei servitori, che lo hanno allevato secondo le loro scarse possibilità, cresciuto nell’ombra mortificante e nella povertà miserabile del cortile, simile a un cane, e dopo aver misurato nel tempo la propria clamorosa insufficienza rispetto ai figli legittimi del vecchio padrone, non ha fatto altro che contenere una specie di rabbia furiosa.

La vera risposta al suo urlo disarticolato e autodistruttivo s’incarna in Alioscia, il più consapevole ma anche il meno avveduto, dei fratelli, non certo immune alla passione: ama Lisa e, sebbene vinca le tentazioni, comprende appieno quello che, nelle pagine iniziali dell’opera, gli sussurra Rakìtin: «Fa che un uomo s’innamori di una certa bellezza femminile, del corpo di una donna, o magari solo di una parte di esso (…) e per lei si sbarazzerà dei propri figli, venderà il padre e la madre, la Russia e la patria…». Insomma anche Alioscia nel sangue resta un Karamazov, figlio del vecchio satiro Fedor: «Sensuale da parte di padre, juròdivyj (folle in Cristo) da parte di madre».

Eppure sarà lui, nell’ultima sezione del romanzo troppo spesso dimenticata o rimossa, intitolata Ragazzi, a fornirci la chiave per evadere dalla prigione dell’io ricucendo lo strappo causato dal male umano. Tempo addietro aveva conosciuto per strada un bambino, Il’juscia, al quale i compagni tiravano i sassi. Dopo averli convinti a recedere, portando dalla sua parte Kòlja, il più feroce del gruppo, quando la piccola vittima prima si ammala e poi muore, li scorta al funerale siglando con loro un patto assoluto: «E così per sempre, tutta la vita per mano! Un urrà per Karamazov!… E ancora una volta i ragazzi fecero coro al suo grido».