A volte ritornano” sembra a tutti il titolo cinematografico più ovvio per commentate la retromarcia di D’Alema in direzione del Largo del Nazareno. Banale, forse, ma idoneo. Anche perché nel film del 1991 diretto da Tom McLoughlin e basato su un racconto di Stephen King, tre ceffi riappaiono anni dopo un delitto, nei panni di zombie, per affrontare il fratello della loro vittima. Come si legge nel Morandini, il dizionario dei film, “un Tv movie poco originale, infestato da gratuiti eccessi truculenti”. Anche in questo caso abbiamo degli zombie (ovvero dei personaggi politici spettrali tornati a tormentare gli umani), abbiamo una trama poco originale (quella delle infinite scissioni e ricomposizioni della storia della sinistra) e abbiamo gli eccessi truculenti (di chi accusa l’avversario politico di essere una malattia e strapazza senza pietà il partito di cui dovrebbe tornare a far parte).

Nessuno stupore, suvvia. Gli zombie protagonisti di quel film sono dei malviventi con elevata mania di controllo e dedicano la loro vita, sia la reale che la fantasmatica, a rovinare la vita degli altri. Quasi quanto quel Lider Maximo che ha fatto finta di fondare un partito nuovo per poi divertirsi ad abbatterlo, architetta la scissione dopo averne perso il controllo, infine rientra come sopravvissuto per tornare a torturarlo.

Ricostruzione troppo pop e irriverente, dirà qualcuno. È vero, lo è: cerchiamo di alzare il tiro, allora.

L’occasione la offre lo schema concettuale che D’Alema adotta per giustificare il rientro. La malattia è finita, il partito è guarito. Ohibò. Guarigione contro malattia, però, è la classica antinomia che rivela un’approccio religioso e una concezione “redentiva” della politica. Da una parte, il nemico politico come demone e sommo male. Dall’altra, il sommo bene della propria confessione. Per condurre la sfida contro il diavolo serve un partito-“chiesa” (o, per chi è più terra-terra, una casereccia “ditta”). Solo così può garantirsi la salute delle anime: extra Ecclesiam nulla salus, appunto. D’Alema sta lì per quello: per ricordare la missione salvifica che compete all’oligarchia del partito, ma che quest’ultima sembra avere abbandonato. Di questa casta dotata di funzione sacerdotale e delegata ad adempiere alla missione, di questo ristretto gruppo di chierici incaricato di indicare la retta via e di combattere ed estirpare l’eresia, Massimo D’Alema si considera da sempre il campione. Una sorta di Bernardo Gui (l’inquisitore domenicano interpretato da Murray Abraham ne Il Nome della Rosa) in salsa comunista.

Che cosa c’è di laico, in una prospettiva del genere? Nulla, ovviamente. Che cosa c’è di moderno? Altrettanto: nulla. Che cosa c’è dell’identità della sinistra? Mah, speriamo nulla. A sinistra ancora in tanti, dotati di buon senso e di spirito libertario, cercano di declinare un’identità un po’ diversa. C’è una sinistra che si batte per la tutela dei diritti degli immigrati, per la dignità umana dei carcerati, per i diritti civili e sociali, per le garanzie degli imputati nel processo e – perfino! – per mettere un argine agli abusi di potere della magistratura (vero, direttore Sansonetti?). E poi c’è lui, Massimone nostro, che ha il compito di scacciare dal tempio i mercanti in odore di riformismo. Mon dieu, che spreco di energie.

Ma l’ironia della realtà sembra più intelligente del sarcasmo purificatore del nostro. Articolo 1 chiude i battenti. Il che rivela che quella sinistra che l’ex presidente del consiglio pensava di rappresentare semplicemente non esiste più. O, tutt’al più, è votata dai parenti stretti degli ex-scissionisti. L’annuncio della fusione merita un sorriso: una fusione “atomica”, si potrebbe dire, nel senso delle dimensioni microscopiche di quel partito fallito che dovrebbe nientedimeno creare – con il Pd – la nuova sinistra unita. Mon dieu, che spreco di energie.

Al termine del deludente flirt con Articolo 1, inoltre, l’ironia della realtà trascina Massimo D’Alema (che al Pd riformista non ha mai creduto e che, su quella prospettiva, per anni ha mentito sapendo di mentire) tra le braccia malandate, ma un po’ più salde, di quel Pd, forza popolare, europeista, riformista e di governo, che sostiene addirittura Mario Draghi. L’odiato tecnocrate, la trave nell’occhio dei sacerdoti dell’identità, quel “coso curioso” che potrebbe perfino trasferirsi al Quirinale.

Diciamo una verità: molti, nel Pd, in modo più o meno esplicito, cinguettano con D’Alema, felici di essersi finalmente liberati dell’eretico per eccellenza: Matteo Renzi. Ma diciamo anche un’altra verità: per bilanciare, inibire, rintuzzare o spernacchiare i quattro amici al bar che ritornano nella beneamata ‘ditta’ basta oggi molto ma molto meno di Matteo Renzi. Basta perfino Base Riformista. Che, infatti, non ha mancato, stavolta, di farsi sentire. Insomma: perfino il molle Partito Democratico attuale, dopo aver sentito le parole dello zio Max, non ha potuto evitare di fare l’offeso. La reazione stizzita dei suoi dirigenti sembra non dare per scontata la deriva crepuscolare e novecentesca delle “buone cose di pessimo gusto” che D’Alema, in versione Nonna Speranza di gozzaniana memoria, continua a propinargli. Un flebile segno di vita? Forse sì. Dopo il quale, però, ci auguriamo qualcosina di più tosto.

Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient