Bisognerebbe chiedere un intervento sovrannaturale di osmosi tra scrittore e recensore per poter scrivere degnamente del dittico firmato da Enzo Sinigaglia, due volumi – l’ultimo uscito il 24 febbraio scorso mentre la guerra in Ucraina iniziava – pubblicati da Terrarossa e intitolati Fifty-fifty, con differenti sottotitoli per ciascuno di essi: “Warum e le avventure conerotiche”, per il primo, e “Sant’Aram nel regno di Marte”, per il secondo. Castrandomi (di questa prosa si dovrebbe scrivere per pagine e pagine), propongo qui tre soli livelli di lettura. Il primo attiene alla visione che Sinigaglia dischiude sui rapporti amorosi.

Aram ama per circa tre anni e mezzo un ventisettenne (lui ha di poco superato i trenta) di nome Stefano, ribattezzato Fifì dal protagonista – il quale adora rinominare le persone e già solo con questo atto le tramuta in personaggi, in mitologie pazzesche tutte egualmente esilaranti. Già, perché Stefano è metà e metà, fifty-fifty, ci sta e non ci sta, ama e non lo dice, desidera ma non pratica, è insomma tutt’un mistero, un indovinello alla Turandot (con un enigma si chiuderà il dittico). Il nostro (diventa oggetto di possesso geloso del lettore, infatti) Fifì è bello, esercita il potere del proprio fascino, conosce le sue doti, si intrattiene con compagne saltuarie ma, soprattutto, è legato ad Aram da un’amicizia che va ormai corrodendoli in un processo di riti, danze, contatti e logia senza però mai giungere all’actus reus, cioè alla consumazione dell’amore: tutto si arresta faticosamente alle soglie del tentativo. Ma il nostro Aram non si limita a farsi macerare dalla passione per Fifì: siccome non fa l’amore con lui, perché Fefano si sottrae, non fa più l’amore con nessuno, osando dunque praticare l’eresia Monofifita! Proprio quello stesso Aram che con disinvoltura aveva invece setacciato corpi e menti di maschi e femmine (le pagine finali del primo volume sulla conquista della Ramsay ne disegnano un prezioso cammeo: erudizione, sensualità, perfidia).

Il primo Fifty-fifty ci racconta dunque le manifestazioni di tale eresia, ora assurde, ora tenerissime, ora sconcertanti (per l’amico musicista più di ogni altro: quanto amabile è il personaggio di Stocky, nomignolo che non necessita di parafrasi). Di certo, le pagine in cui Aram e Fifì sono in vacanza al Conero in una tenda a stento capace di ospitare un solo corpo (di qui il conerotismo della situazione) e il primo avverte nel tremore dell’amato dentro il suo abbraccio tutte le paure non dette, e indicibili, ci regalano pagine altissime e indimenticabili sulla mistica dell’incontro dei nostri corpi. Dunque Sinigaglia riesce a scrivere d’amore in un discorso antico e nuovissimo, atto di neopaganesimo liberante vergato da un Ovidio che ha letto e praticato l’omoerotica del ‘900 e l’ha fatta scivolare via come un torrente dov’è semplicemente impossibile bagnarsi due volte. Oltre le categorizzazioni, indifferente alle rivendicazioni, conscio dell’unico vero scandalo: la caduta nell’eresia monofifita (ognuno potrà cambiare il “fifita” con l’oggetto delle proprie devozioni).

Il secondo livello di lettura ha a che fare con il potere pacificante dell’ibridazione tra contesti, esperienze, linguaggi: e veniamo al secondo volume che ci riporta a un tempo antecedente agli accadimenti raccontati nel primo, quello dell’esperienza di Aram come ufficiale dell’esercito (ecco il regno di Marte). Un regno che, grazie ad Aram, diventa più propriamente, come nell’overture del Tannhäuser, un sommesso ma inesorabile regno di Venere. Aram ribattezza i suoi soldati: per esempio Pisolo, colui che riveste il ruolo di suonare la tromba cadenzando i ritmi della giornata. E Sciofì, l’autista toscano che gli tocca in sorte, di una bellezza stratosferica, col quale Aram inizia per pochi giorni una storia di passione travolgente sotto lo sguardo gelosissimo di Pisolo. Per il lettore ridere dell’incredibile trasformazione di Marte in Venere è un toccasana discendente ancora una volta da un’eresia agli occhi del mito di certa intramontabile virilità guerriera: Aram riesce a capovolgere regole, attitudini, linguaggio (al mattino porta il caffè ai suoi soldati, svegliandoli con una carezza). In quest’orrendo tempo di guerra, il secondo volume di Fifty-fifty è lenitivo audace imperdibile e atto intelligentissimo di pacifismo.

Il terzo livello attiene alla lingua di Sinigaglia: “mi regalò un sorriso così ardente che mi domando ancora adesso: perché non lo baciai? Lì, in quell’istante? Che fossi spaventato, allarmato da quel correr troppo in fretta? Da quel piumato volar di bersaglieri, impazienti di far breccia?”. Mentre Aram e i suoi amici, le sue donne, gli amanti impossibili, i giovani ragazzi desiderosi di attenzione nei locali che si svuotano alle prime luci dell’alba, entrano nella vita del lettore, abitano la sua fantasia, stimolano i suoi sorrisi, rispecchiano le sue amarezze, provocano in climax accuratissimi profonda commozione, chi legge è avvolto, letteralmente, da una lingua che è musica, impasto di colori fantasiosi, rincorrersi autoironico di vezzi, meraviglia di dialetti ricreati sulla pagina che sbucano fuori vividi come da una partitura senza sosta reinventata: uno star dentro a quella cascata di immagini, intelligenza e passione che è lo sguardo sagace ricolmo di empatia di chi ha scritto questo capolavoro.

Finito il dittico mi son detto: nel XXI secolo Mozart e Da Ponte sono ritornati nel corpo di Enzo Sinigaglia, secondo una forma di possessione che irradia luce, diverte mentre tocca il tasto della malinconia, commuove mentre ragiona e sdrammatizza. Toccante, il momento in cui Aram e Sciofì si separano; e quanto è vera la lezione che Aram e Fifì apprendono: si ama sempre lo stesso amore e si rifugge sempre dallo stesso amore. Tra questo Fifì, sorta di reincarnazione del Saint-Loup proustiano, e questo Sciofi animato dalla gioia nostalgica per il maschio italiano bello e sensibile, l’universo di Aram ci porta a riscoprire le possibilità di vita che l’amore prepara: possibilità di un gioco serissimo, com’è di tutti i giochi giocati da bambini talvolta un po’ sciocchi, solo desiderosi di rifuggire l’amarezza del destino.