Di enormi colpe è macchiata la storia dell’editoria del Novecento italiano, quando, inseguendo ciecamente i soli successi di vendita, ha incominciato a consolidare il proprio status di industria culturale. Negli ultimi anni, poi, quando si è sentita la necessità di comporre un canone letterario del secolo trascorso, le omissioni di autrici e libri da parte di critici e uomini di lettere sono state ancor più imperdonabili. Gli anni Ottanta hanno rappresentato solo il preludio all’esplodere del fenomeno del “giovane esordiente che scrive storie di giovani e per giovani lettori”, declamando il successo, a ragione, di Enrico Palandri, Pier Vittorio Tondelli, Daniele Del Giudice, Andrea De Carlo, dando però un imprevedibile nuovo corso all’andamento di quella che sarebbe diventata, di lì a poco, la grande distribuzione dei colossi editoriali.

Intercettato allora un nuovo target da presentare alla Fiera del libro di Francoforte del 1985, contando su precise esigenze di affinità tematica e linguistica, i casi editoriali si sono via via inseguiti, dai Cannibali alla scrittura collettiva dei Wu Ming, fino alla deriva delle mode dei giorni nostri. Ma a farne le spese è stata spesso la qualità; a farne le spese è stato, per più di un trentennio, Ezio Sinigaglia. In quel 1985 a Francoforte mancava infatti Il Pantarèi, l’esordio di Sinigaglia che usciva negli stessi anni per una semisconosciuta casa editrice, passando ingiustamente inosservato. Lo scrittore milanese, fautore di uno sperimentalismo controcorrente, si imbarcò nell’audace impresa di un metaromanzo erudito che riflettesse su tutto il canone letterario occidentale, al fine di dimostrare che “il romanzo non era morto”.

La miopia di quei poco lungimiranti editori non permise loro di accorgersi che Sinigaglia possedesse già «un organismo ritmico, una mano sicura e una capacità di imitazione», per usare le parole di Svevo, uno dei suoi grandi maestri, insieme Proust e Joyce. Laddove neppure l’interesse manifestato da Vittorio Sereni, allora alla direzione letteraria di Mondadori, garantì a Il Pantarèi il futuro che meritava, ci è arrivata, da qualche anno, l’illuminata casa editrice indipendente Terrarossa che, senza alcun timore, ha scelto di pubblicare anche il nuovo libro di Sinigaglia, candidato al Premio Strega 2020, per il suo essere un «conte philosophique sulla natura misteriosa e oscura dell’amore socratico», ossia L’imitazion del vero.

Rispolverando le sudate carte, anche questa novella amorale fu scritta negli anni Ottanta ed è ambientata nel favolistico Principato di Lopezia, nel quale si muovono il falegname Mastro Landone, genio del legno e ideatore di incredibili portenti meccanici, descritto come il Leonardo Da Vinci nelle Vite del Vasari, e un giovane garzone di colore, Nerino, proveniente da Napoli e portatore di un fascino irresistibile. Ne L’imitazion del vero, attraverso tutta una serie di peripezie da commedia plautina degli equivoci, il desiderio licenzioso che infiamma i sensi dei due protagonisti dovrà fronteggiare l’ostilità della legge degli uomini.

Essi, in barba al «naturale organismo, la natura seguendo», condannano l’omoerotismo come peccato di sodomia e il colpevole «lo metterebbero ai ferri e gli mozzerebber gl’orecchi ed alla gogna per sette dì e sette notti lo terrebbero esposto». Una variazione sul tema della vergogna, dell’inganno, una critica a un sistema di giustizia che si oppone alla legge del desiderio e un tentativo di espiazione biblica per raggirare la colpa della mela nell’Eden; e ancora, è un racconto di educazione sentimentale, attraverso l’eterna tensione filosofica tra la mutevolezza della natura e la plasticità della falsificazione artificiale, e nel quale trova posto il voyeurismo come meccanismo di rivelazione. La necessità etico-sociale che fa da sostrato alla scelta di Sinigaglia è la rivendicazione, per quei giovani nati negli anni Sessanta, di una sessualità libera, ai tempi guardata ancora con sospetto dalla morale comune e repressa dallo stigma nella clandestinità.

Tuttavia, ciò che rende L’imitazion del vero un unicum nel panorama editoriale odierno è la sua lingua ambiziosa, ricoperta da una patina arcaicizzante, ispirata al Boccaccio senza dirsi boccaccesca, ma esclusivamente contemporanea. Allo scopo dichiarato non di ammansire il lettore, bensì di installare un meccanismo di scomposizione e ricomposizione sintattica sul modello latino, Sinigaglia ha inventato, in maniera del tutto originale, una lingua personale, non imitativa. Essa è intessuta sulla partitura di una prosodia incantatrice, frutto di un orecchio metrico esercitato e di una consapevolezza filologica da accademico. Per questo, la musicalità dei neologismi e onomatopee sulla pagina va letta necessariamente a mezza voce per coglierne tutta la sua complessità.

La lingua di Sinigaglia si inserisce così a pieno titolo in quella Linea lombarda battezzata da Luciano Anceschi e che va da Alessandro Manzoni, artefice del medesimo tentativo di scrittura in dialetto fiorentino de I promessi sposi, al Gadda dell’Eros e Priapo, interpretazione satirica e oscena del regime fascista, scritta in un finto fiorentino del Cinquecento. Quella Linea che potrebbe virare, a mio avviso, fino all’eclettismo sperimentale di Arbasino, alla riscrittura moderna del Decameron da parte di Busi e al rigore filologico di Michele Mari.

L’imitazion del vero è dunque un microcosmo in cui avviene il ribaltamento in chiave queer di tutti gli stilemi stilnovistici, a partire dall’oggetto del desiderio sino alla sua connotazione cromatica. L’uomo angelicato in Sinigaglia è diventato ormai sensuale e malizioso, la nobiltà d’animo, invece, un bruciante desiderio sessuale che «move il Sole e l’altre stelle», al punto quasi da poter parlare ironicamente di un’imitazion dell’eros.