«Nisida è un’isola e nessuno lo sa. Nisida è un classico esempio di stupidità», cantava con ritmo reggae Edoardo Bennato negli anni Ottanta. Eppure Nisida esiste, non come atollo in mezzo al mare, bensì come un affronto agli occhi di Posillipo, il promontorio che gli antichi greci denominarono “tregua dal dolore”, per l’incantevole vista sul golfo di Napoli. Una delle più ricercate Leggende napoletane di Matilde Serao narra la storia di Posillipo, un giovane innamorato di un’indifferente e malvagia ninfa di nome Nisida, la cui riluttanza all’amore lo portò a metter fine alle sue sofferenze, perdendo la vita in mare. Il castigo del fato arrivò però puntuale: Posillipo fu mutato in «un poggio che si bagna nel mare», dal quale potrà guardare la sua amata isola di «pietra levigata, dura e glaciale» per l’eternità, ma solo da lontano.
Nisida ha ereditato l’asprezza della sua fanciulla, è l’isola della pena e dell’espiazione, un sopruso che acuisce di senso la privazione della bellezza. Da “isoletta delle capre”, dove riparò Ulisse, poco lontano dal Paese dei ciclopi, è divenuta lazzaretto per gli appestati, prima che un ponte di pietra la rendesse una costola di Napoli, annettendola alla Bagnoli delle ex acciaierie. Oggi è una colonia giovanile, sulla quale un istituto di pena per minorenni ospita in media 45 tra ragazze e ragazzi, accusati di furto, estorsione, spaccio e omicidio; il confino tra le sue celle è anche negazione del mare e del nome, spesso sostituito con la grammatica dei codici della Legge che li ha puniti. «In carcere, del presente non si parla e il futuro non si immagina», scrive Valeria Parrella nel suo ultimo romanzo, Almarina, edito da Einaudi, nel quale riflette sulla condizione umana in sosta sulla soglia del carcere di Nisida, la responsabilità di chi sta fuori e la livella del giudizio dal di dentro. Finalista al Premio Strega e candidata al Premio Napoli, Valeria Parrella è, tra gli altri, l’autrice di un manuale tradotto in sei lingue sui diritti dei detenuti e oggi, sulle colonne de Il Riformista, ribadisce il principio di responsabilità sociale e di misericordia nei confronti dei carcerati.
Valeria Parella, conosciamo la sua militanza politica e l’impegno nelle carceri napoletane, da Poggioreale a Nisida, attenta ai diritti dei detenuti e in difesa delle minoranze etniche e di genere. Quanto di Almarina lei ha visto in prima persona?
Io a Nisida ci sono entrata per un laboratorio di Scrittura creativa per quattro anni di seguito. Non ero mai stata in un carcere minorile e subito ho opposto a questo una grande resistenza, perché già le carceri per adulti lasciano un senso di frustrazione profondissimo. Sono fatte male, sono inadeguate, sovraffollate e perché la carcerazione è ingiusta, così come viene attuata. La certezza della pena è un fondamento costituzionale, ma ugualmente lo deve essere il rispetto della detenzione. A Nisida quindi ci sono entrata molto malvolentieri. Il mio libro è un pretesto per raccontare questa resistenza a varcarne i cancelli: nell’entravi e nell’uscirvi, perché uscire da un luogo in cui ci sono persone che hanno l’età dei tuoi figli e che quella sera non dormiranno in una casa, quella è un’attestazione di crudeltà fortissima.
Attraverso la figura di Elisabetta Maiorano, ha potuto declinare il tema, centrale in Almarina, del principio di responsabilità sociale nei confronti dei detenuti. Una responsabilità, e non un senso di colpa, che investe tutti noi, che siamo i veri colpevoli della Storia. Ma in che modo potremmo dirci realmente responsabili?
Uno degli assunti del mio libro e di cui sono più sicura è che ovunque ci sia un minore colpevole, da un’altra parte c’è un adulto colpevole. Tutte le figure che circondano un minore detenuto sono importanti, Nisida per questo è un ottimo carcere minorile. Qui il senso rieducativo significa aiutare questi ragazzi a capire che ce la possono fare, che sono persone, che sono degni e che possono trovare una strada. Mi viene quindi da chiedermi, ma in maniera retorica, non è forse nei quartieri a rischio, quando hai una madre che si prostituisce o un padre agli arresti domiciliari o un fratello che spaccia, non è forse anche lì che c’è una mancanza di libertà?
Nel suo romanzo scrive: «Bisogna avere misericordia dei detenuti», un’idea che rimanda subito alle meditazioni del Papa recitate durante la Via Crucis dello scorso Venerdì Santo, e nelle quali il carcere viene definito come «il luogo in cui si continuano a seppellire uomini vivi». Dov’è dunque la misericordia degli uomini che permettono il fine pena mai o le stipate condizioni di detenzione, anche in piena pandemia?
Il fine pena mai equivale a una condanna a morte. Credo che sia contro i diritti dell’uomo e del cittadino. La mia è una posizione politica, non da giurisperita, ma tutte le posizioni che possano convergere verso l’abolizione dell’ergastolo sono fondamentali per lo sviluppo di una società degna di questo nome. Mi spaventa un’Italia in cui è possibile l’ergastolo, ho più fiducia in un Paese in cui non ci sia il senso della vendetta nella pena.
La protagonista di Almarina, un’immigrata romena, si trova a Nisida per aver rubato un telefonino, dopo essere stata violentata e aver attraversato i Balcani. Se come ha detto «il carcere è un punto limite, come Lampedusa», potremmo dedurne che Almarina sia solo un archetipo delle tante Almarine contemporanee, approdate sulle coste del nostro Paese…
Credo che il carcere sia un limes, nel senso latino del termine, cioè un luogo oltre il quale sei in un modo, e prima del quale sei in un altro. Nel mondo contemporaneo e in Occidente, il carcere è uno dei pochissimi luoghi nei quali esperire, in pochi metri e dopo aver passato una procedura di ingresso, una condizione di sospensione della libertà e dei diritti. Questa cosa, che è sì archetipica, ci rende tutti responsabili.
Prevenzione ed educazione sono le parole chiave per il processo di reinserimento del giovane carcerato nella società. E a Nisida, la scuola è l’unico spazio senza sbarre, l’istruzione è dunque l’unico luogo deputato alla libertà. Che ruolo ha effettivamente la rieducazione culturale per il futuro di questi ragazzi?
Nisida insegna una cosa ai ragazzi, e cioè che è possibile fidarsi degli adulti. Questo non è poco, specie se per tutto il resto della tua vita è sempre andato al contrario. Noi stessi siamo i primi a far fatica a fidarci degli altri. La paura è infatti per il dopo, per il reinserimento. Lo Stato così come riesce a manifestarsi nella sua parte migliore in un buon carcere, come quello di Nisida, ugualmente dovrebbe concludere il suo compito con un buon percorso di reinserimento nella società. Spesso questi percorsi attraversano strade volontaristiche, ma quello che non c’è è un programma fatto bene. Non vedo al Sud, ma in realtà in tutta Italia, dei programmi specifici, che abbiano una pregnanza.
Antonio Gramsci compare nel suo libro già nella citazione posta in esergo. Le Lettere dal carcere sono state per Gramsci, come scrive a sua cognata Tania, «il solo legame con il mondo per rompere la mia segregazione e il mio isolamento». La forma epistolare, che lei ha sperimentato in classe con i detenuti di Nisida, ha avuto la stessa funzione?
Per me Gramsci è un padre politico e un padre letterario. Ho portato Gramsci veramente a Nisida, perché nel laboratorio di scrittura creativa, una volta, ho chiesto ai ragazzi di scrivere una lettera di invio e una lettera di ritorno. In prima battuta, i ragazzi scrissero veramente male, non perché fossero sgrammaticati, ma perché avevo come l’impressione che loro avessero scritto il peggio di quello che sono, che fossero più ricchi di quelle pagine costruite, fatte per accontentarmi. Così portai l’epistolario di Gramsci e leggemmo le lettere a Giuliano. Dissi loro: «L’occhio di uno scrittore è un occhio che non ha bisogno di vedere per sapere, vedete quanto altruismo c’è in queste lettere?». I ragazzi capirono perfettamente. Le lettere che scrissero dopo erano bellissime. È questo che fanno i grandi padri, i grandi esempi.
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