Nei confronti dell’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio, La misura del tempo (Einaudi, Stile Libero) candidato al premio Strega (probabilmente il favorito, accanto a Veronesi), ho un accordo totale sul piano etico-filosofico e un atteggiamento più tiepido sul piano letterario. Provo a spiegarmi. La scrittura non è il suo punto di forza. In una intervista ha sottolineato che la scrittura è «andare nelle zone d’ombra», ma ho l’impressione che la lingua di questo libro, pure educata, sobria, affabile, non costituisca in sé un mezzo conoscitivo. Nella pagina di un romanzo, poniamo, di Calvino o di Gadda (due esempi alti, comunque stilisticamente agli antipodi) ci sono delle parole e espressioni che si accendono – aggettivi inconsueti, accostamenti verbali sorprendenti -, e ancora metafore, similitudini, ossimori, etc. che suggeriscono una prospettiva altra, straniata da cui mettersi per guardare le cose.

Nel loro caso lo stile, lievemente o fortemente deviato dalla “norma” accettata, ci permette di esplorare la realtà. Ogni romanzo è anche una straordinaria avventura dentro la nostra lingua. Non così Carofiglio (se a qualcuno manca l’aria, nel suo libro, sarà inesorabilmente «come per un pugno allo stomaco»…), e nemmeno Camilleri, con il suo dialetto stucchevole da esportazione. E non si tratta solo di genere. Non ho nulla contro la letteratura di genere, che soddisfa anzitutto legittimi bisogni di intrattenimento (certamente Carofiglio, Camilleri, Lucarelli, Carlotto, Manzini, etc. sono eccellenti artigiani). Oltre al fatto che il noir o crime story è stato ampiamente sdoganato: si pensi a Gadda e Sciascia (con i loro gialli senza soluzione, che pure esasperano l’appassionato del genere), a Fruttero & Lucentini (che non amo particolarmente), o fuori dei nostri confini ai Dürrenmatt, Simenon, Chandler. E anche se poi gli autori di gialli – uso il termine impropriamente come sinonimo di noir – un complesso di inferiorità ce l’hanno, visto che nelle interviste citano sempre come “giallisti” Eschilo, Shakespeare, e perfino l’autore della Bibbia (Abele e Caino o la fanciulla e i vecchioni…). Ma, ripeto, nessun pregiudizio negativo: i guai cominciano solo quando la letteratura di genere mostra ambizioni troppo alte o quando anche la cosiddetta letteratura d’autore viene percepita come mero intrattenimento («Ho letto la Metamorfosi di Kafka: carino…»).

E ora passo invece, per usare un linguaggio giudiziario, alla “difesa” di Carofiglio. Per Pasolini la “forma” di un romanzo non è solo la lingua, ma anche i personaggi. Nella Misura del tempo l’io narrante, l’avvocato Guido Guerrieri – che accetta un caso difficile (la difesa del figlio di una antica amica, Lorenza) – appare ben inciso, con una psicologia definita e insieme sfuggente, ricca di interessanti contraddizioni. La sua percezione del tempo avvolge ogni evento, e viene descritta con un linguaggio preciso. Ed è proprio lui l’asse del romanzo, ciò che cattura il lettore ancor più del brio narrativo. Ma accennavo ad una adesione più profonda. Tutto il romanzo è una apologia della letteratura e una critica a certo giustizialismo che ha smarrito le proprie ragioni. Guerrieri pensa che un giurista dovrebbe passare il tempo a leggere buoni romanzi, a vedere buon cinema e buona televisione, a «nutrirsi di buone storie», poiché l’arte del racconto ci ricorda che non esiste mai «una sola risposta di fronte ai dilemmi umani. Essi sono inevitabilmente ambigui».

Dire che la verità è ambigua non significa aspirare all’ambiguità, ma solo riconoscere il tragico della vita (che consiste nel fatto che ognuno ha le sue ragioni). L’uccisione di Bin Laden è stata un omicidio doloso o un atto di giustizia sostanziale? È lecito torturare un terrorista per farsi rivelare dov’è una bomba che sta per esplodere? Il diritto si intreccia con la riflessione etica: si dedica un ampio spazio all’esperimento mentale del “dilemma del carrello”, di Philippa Ruth Foot. La capacità di trovare le risposte ai conflitti si basa sulla capacità di convivere con l’incertezza, con l’opacità del reale. (una “capacità negativa” per il poeta Keats). Nel libro si trova poi un utile accenno alle innumerevoli fallacie dell’argomentazione, autentici tranelli del ragionamento, che ci impediscono di procedere logicamente in una discussione. Sul processo: in una intervista Carofiglio ha osservato che il pubblico ministero non deve ritenersi arbitro del bene e del male e neanche giudicare. Il suo è un compito più tecnico. E nel romanzo leggiamo che l’accusa non può limitarsi a proporre, tra due storie, quella più probabile.

L’onere della prova è interamente a carico dell’accusa, dunque questa deve proporre l’unica spiegazione accettabile (non possono essercene altre), per superare lo scoglio del dubbio ragionevole (che può invece essere invocato dalla difesa anche solo prospettando una spiegazione possibile). Sante parole. Carofiglio ha fatto e fa politica, ma di questa ci offre una versione saggia e, forse, l’unica accettabile: «Cambiare il mondo è, nella migliore delle ipotesi, un risultato preterintenzionale delle nostre azioni». Saperlo predispone a misura e prudenza. Infine, sono debitore a Carofiglio di una meravigliosa citazione sul fatto che non ci si rassegna alla morte. Non è di Elias Canetti (pure presente in queste pagine) ma di Mastroianni: «Mi piace cenare con gli amici. Allora perché devo morire?».