“Perfect Days”, il nuovo film di Wim Wenders, inizia con un uomo giapponese che apre i suoi occhi. Li apre mentre dorme sul futon in una casetta di Tokyo, vecchia, spoglia ma essenziale. Durante tutta la pellicola seguiamo le sue ripetitive giornate da addetto alle pulizie dei bagni pubblici e osserviamo attraverso i suoi occhi la città e le cose. Hirayama, è questo il nome del protagonista, potrebbe avere sessant’anni e il regista lo considera un uomo felice: “Quest’uomo rappresenta un piccolo pezzo di utopia. Nelle nostre vite manca la sensazione di vero appagamento e la terribile malattia dei nostri tempi è la paura di perderci qualcosa, mentre la caratteristica principale di Hirayama è che non gli manca nulla”. In realtà la sua esistenza non sembra così felice e appagata: è solo, squattrinato, si percepisce che è un ex-borghese ora alle prese con una vita raminga, al mattino pulisce i cessi e il pomeriggio legge, ascolta buona musica, cura le sue piante e scatta foto.

È forse questa l’utopia a cui si riferiva Wenders perché un personaggio così dicotomico agli occhi di uno spettatore moderno regge a stento. Poi c’è un altro tema ed è quello del bisogno di identificazione che qui viene tradito dalla scelta di non far parlare quasi mai Hirayama. Come mai questo mutismo selettivo? E soprattutto come fanno gli altri personaggi a “vederlo”, ad essergli affezionati, se lui al massimo li saluta con un cenno del capo? Non sappiamo se questa sia una scelta culturale giapponese (il film è stato scritto e prodotto con il nipponico Takuma Tamasaki) ma l’intreccio tra i vari personaggi scricchiola e purtroppo lascia un po’ freddi. “Le mie pellicole si basano sulla ricerca. Il soggetto della mia vita è la ricerca, che è senza dubbio alla base della mia filmografia. Anche oggi continuo a cercare l’identità, l’amore, l’anima e il senso della vita. Tutto questo deve riflettersi nei miei film. Con il mio cinema, in fondo, cerco risposte”, dice il regista. E guardando le sue opere anche noi ci proviamo con lui.

La routine non è monotonia

“Perfect Days” ruota dunque intorno all’esistenza monacale di un uomo pignolo e durante tutta la durata del film (due ore abbondanti) ci si chiede se forse è depresso e non se ne è accorto o se davvero è contento di sé stesso ma semplicemente snob. Un uomo con la pezza sulle spalle come un pugile suonato che vorrebbe sembrare un moderno Charlot, ultimo tra gli ultimi, ma incapace di amare e quindi senza redenzione. Un uomo solo, legato terribilmente al passato e circondato da oggetti che qualcuno definirebbe “vintage”: la bici, il mangiacassette, i libri della biblioteca, lo StarTac al posto dello smartphone, la macchinetta col rullino, niente televisione né agiatezze. Wim Wenders infatti racconta questa come la vita ideale: “Una vita diversa e modesta che ci regala una lezione di vita fondamentale e cioè che si è più felici con meno – e aggiunge – La routine non è monotonia, contiene libertà. La bellezza di tenere un ritmo regolare, all’apparenza identico, è che ti consente di apprezzare le piccole variazioni giornaliere: se impari a stare nel qui e ora scopri che non si tratta di una sequenza ripetuta, ma di una catena infinita di momenti unici, incontri unici”. Giusto, ma quanto vuoto intorno al protagonista, quanta rassegnazione.

Così confortano nei lunghi minuti di silenzio le potenti canzoni americane degli anni ’70, capolavori eterni di Lou Reed, Nina Simone, Patti Smith e dei Kinks, creando insieme alle bellissime panoramiche su Tokyo (che per colori e visoni sembra quasi il Far West) attimi di puro Cinema. Allo stesso modo incantano le incursioni oniriche tanto care a Wenders che in questo film vengono chiamate semplicemente “sogni”, increspature in bianco e nero realizzate dalla moglie Donata Wenders. Poi c’è la realtà: nonostante il protagonista dica “Se mai niente cambiasse sarebbe totalmente assurse, non può essere” continua la sua vita ripetitiva, sveglia, lavoro, svaghi, cena. E guidando il suo furgoncino il povero Hirayama disperato sorride.

Maddalena Messeri

Autore