Avrei voluto conoscere Richard Wagamese, nato nel 1955 in Ontario, ma non ne ho avuto il tempo perché è morto tre anni fa, dicono per “cause naturali”, forse una malattia o anche la precoce consunzione di una vita troppo intensa. Il suo nome nativo era molto più difficile da leggere e pronunciare: Mushkotay Beezheekee Anakaewat, se ho digitato bene. Buffalo Cloud: un pellerossa della tribù Ojibway che, dopo essere stato adottato, studiò al college assorbendo tutta la storia della letteratura americana, allo stesso tempo strumento di perdizione e salvezza per i suoi antenati.
Chiamiamolo semplicemente Richard. Un vero scrittore. Non so dire se grande o non grande. Di certo autentico e di qualità superiore. Basta aprire una qualsiasi pagina per sentire il respiro profondo delle origini oscure. Forse in Italia non ce ne rendemmo pienamente conto quando nel 2012 Bompiani pubblicò Cavallo indiano, la storia di un ragazzo povero che diventa campione di hockey, sebbene quel romanzo fosse il suo più celebrato, anche a causa del film che ne ricavò Stephen Campanelli, Indian Horse, prodotto dal mostro sacro Clint Eastwood.
Ma adesso, dopo aver letto Le stelle si spengono all’alba (La Nuova Frontiera, traduzione di Nazzareno Mataldi, pp. 253, 17,50 euro), pubblicato per la prima volta nel 2014, non dovremmo avere più dubbi. Siamo di fronte a un pezzo da novanta. Due parole sul titolo che in originale recita Medicine Walk, vale a dire: cammino di cura e rinascita. Di quale viaggio stiamo parlando? Quello intrapreso da Franklin Starlight, sedicenne meticcio cresciuto alla scuola della foresta grazie alla guida di un vecchio che ha recitato la parte dei genitori assenti. Chi sia questa specie di tutore, pronto a fare del proprio meglio alle prese prima col neonato, poi col bambino, infine con l’adolescente, lo sapremo quasi al termine della narrazione, quindi mi pare giusto lasciarlo in sospeso.
Il padre biologico del giovane protagonista, di nome Eldon, alcolizzato ormai in fin di vita, chiede al figlio di essere accompagnato nelle Grandi Pianure, là dove un tempo i capi regnavano indisturbati, prima che le giubbe blu li massacrassero insieme alle loro famiglie, in quanto vuole morire alla maniera degli antichi guerrieri, nella solitudine radicale dei combattenti estremi che lui sente di aver tradito. È come se, rivolto al ragazzetto che gli si presenta davanti, sangue del suo stesso sangue, severo e cocciuto eppure meravigliosamente ingenuo, come possono essere soltanto i più giovani, specie coloro che sono stati abbandonati, l’adulto dicesse: io non ce l’ho fatta ad essere all’altezza degli eroici comandanti che ci hanno preceduto, guerrieri e stregoni, ho ceduto troppo presto, scolando una bottiglia dietro l’altra, sono stato pavido, egoista, non ho giocato le mie carte, le ho sprecate tutte gettandole dietro alle spalle; allora provaci tu, ragazzo, al posto mio. Se lo farai non salverai soltanto te, ma anche il sottoscritto. E perfino i nostri avi. Che, in fondo, non stanno aspettando altro da te.
Le prime righe in cui Franklin finalmente incontra il genitore, chiamato al rendiconto finale, in un casamento fatiscente alla periferia della città, scoprendolo ubriaco e malato, tormentato dalla tosse, disteso seminudo insieme a una prostituta (ci tiene a dirlo subito “questa è una puttana”, sottotesto: non credere che sia tua madre), con le lattine di birra vuote sparse a terra, la stanza disordinata piena di arnesi da lavoro appoggiati dove capita, hanno una potenza unica e non si dimenticano facilmente: «Suo padre scivolò fuori dal letto e il ragazzo vide quanto fosse macilento, i glutei simili a piccoli impasti di pane e il resto del corpo una serie di sporgenze, spuntoni e articolazioni sotto la pelle giallastra. Lo osservò vestirsi e finì la sigaretta, mentre la donna bevve un altro sorso dalla bottiglia e si diresse verso la porta».
I nodi da sciogliere sono tanti. Perché Eldon non si è mai preso cura di lui? Quale ragione può spiegare tale decadimento? Chi era sua madre? Cosa si nasconde dietro l’abbandono? All’inizio non sappiamo niente, possiamo soltanto seguire Frank, smarrito e incerto ma carico di una incredibile saggezza, alla spasmodica ricerca di chi lo ha messo al mondo. Mentre lo facciamo scopriamo con sgomento i fondali di un mondo in rovina: villaggi dismessi ai margini della vegetazione sterminata del Canada dove la forza della natura sembra ancora devastante, fuori dal controllo umano. Ma poi, quando padre e figlio si stagliano a cavallo lungo il profilo delle montagne innevate, oltre cui il vento domina selvaggio e le stelle sembrano fredde e indifferenti, quasi seguissero un piano sfalsato rispetto al nostro, tutte le risposte vengono al pettine, anche se, come dice un’anziana che accoglie i due sbandati nella sua catapecchia, «la verità di quello che siamo è nascosta dove non si può vedere».
La madre si chiamava Angie, era stupenda nella sua vitalità appassionata e quando rimase incinta, Eldon capì per la prima volta cosa significasse essere un padre: «Mi sentivo come se fossi anch’io parte di lei, proprio come la nuova vita che lei stava crescendo dentro di sé. Come se tu e io fossimo la stessa cosa, Frank, perché avevamo tutti e due bisogno di lei per vivere». Ma questo pensiero, invece di caricarlo, di dargli forza, di farlo uscire dalle secche in cui era caduto, gli mise paura, lo paralizzò, quasi comprendesse solo in quel momento di felicità che non sarebbe mai stato in grado di consegnare il testimone al piccolo scalciante nel ventre di sua madre. Il passato incombeva: una tragica storia di guerra in Corea e tante altre missioni incompiute cominciarono a pesare innescando una crisi fatale.
Il figlio comprese. Dopo aver seppellito suo padre, chiuse gli occhi e credette di scorgere, laggiù nella valle, «forme spettrali di persone a cavallo in mezzo agli alberi». Procedevano verso est alla ricerca di nuovi pascoli dove accamparsi: avrebbe dovuto vivere per loro.