Un grande pensatore di orientamento conservatore come Nicolás Gómez Dávila ha scritto “la parola non è stata data all’uomo per ingannare, ma per ingannarsi”. La parola, principio e fine di tutto, è il nuovo campo di battaglia per la assegnazione di un senso sostanziale all’essere; e questa inesausta lotta si consuma sì su pronomi, identità sessuale, definizioni e categorizzazione ma soprattutto come autorappresentazione egoriferita di teorici del nulla. Ed è la parola, il modo in cui essa viene strumentalizzata, opacizzata, ridefinita, sussunta in dispositivi teorici, a rappresentare e a farsi protagonista assoluta del nuovo libro di Giulio Meotti, ‘Gender – il sesso degli angeli e l’oblio dell’Occidente’ (Liberilibri). A dispetto del titolo infatti l’agile volume non è soltanto una messa a punto sullo stato dell’arte di quella furiosa ideologizzazione simil-sessuale e pseudo-identitaria che dai prestigiosi atenei dell’anglosfera ha ormai inquinato e ingolfato opinione pubblica e dibattito politico, spesso con esiti farseschi, ma è in primo luogo una ricostruzione epistemologica di un metodo che decostruendo qualunque paradigma ha affondato le basi del vivere civile, il patrimonio assiologico basico della convivenza istituzionale e sociale. D’altronde, la parola è stata al centro dell’epos nietzschano nel suo tentativo di demolizione della metafisica cristiana: il filosofo di Röcken, prima di tutto filologo, sarebbe poi stato ripreso tortuosamente da Deleuze, con la sua peculiarissima interpretazione post-batailliana del pensiero nietzschano e si sarebbe da qui incuneato nel seno scoperto della french theory, ‘pervertita’, come scrive Richard Millet nella bella introduzione, nei campus americani e alchemicamente trasmutata in impostura intellettuale.

È la guerra totale contro il principio di realtà, combattuta dagli stessi che non avendo cura per l’esito concreto delle loro vagheggiate liberazioni si rendono padrini della fusione tra fondamentalismo decostruzionista e fondamentalismo violento che incendia piazze e università. Dal famigerato ‘Licancellare bro verde’ apparso in Inghilterra sotto le bombe naziste e già stigmatizzato dalla penna di C. S. Lewis, passando per lo psicologo John Money, epigono di Kinsey, fino ad arrivare alla attualissima Judith Butler, madrina concettuale di una autentica radicalizzazione della teoria di genere, presentata come grimaldello per scardinare biologia, logica e realtà, e far cadere con esse la società nella barbarie di un politicamente corretto elevato a dogma.

Il libro di Meotti non è una tirata moralistica, ma una puntuta ricostruzione fenomenologica di una abiezione teoretica, il cui peso esiziale è stato ben stigmatizzato in una prospettiva libertaria da Camille Paglia, secondo cui ciascuno ha il diritto di modificare il proprio corpo, appellarsi come meglio crede e identificarsi nel genere che preferisce.

Ma non esiste, prosegue la Paglia, e non può esistere una pretesa assolutizzata, rinforzata dall’intervento statale, affinché la proiezione e la percezione individuali si ammantino di tabù, divieti pubblici, censura, politiche di sostegno economico, venendo nei fatti riconosciute come verità di Stato. L’aspetto tremendo di questa falsificazione concettuale, annota Meotti, è che pur proponendosi essa come erede concettuale della grande tradizione razionalista ed emancipatoria, non fa altro che produrre assunti del tutto astratti, astrusi e che molto spesso urtano frontalmente con i postulati scientifici e logici.

In questo, la derivazione post-strutturalista delle teorie di genere è evidente: un deserto post-reale nutrito dagli ologrammi dell’ego che avanza e non riconosce alcun canone valoriale oggettivizzato e per cui tutto è figlio della costruzione individuale o sociale. Non a caso, l’ideologizzazione della teoria di genere, come sottolinea Meotti citando casi concreti, fa leva sugli apparati statali e sui meccanismi reputazionali delle big corporation per assumere una posizione maggioritaria e dominante, predicando e praticando intolleranza, esclusione, boicottaggi.