Torna, dal 29 al 31 luglio, a Civitanova Marche il festival Rocksophia: un viaggio verso le radici culturali della musica e non solo. Promosso dall’Associazione Popsophia, il festival animerà per tre giornate la cittadina marchigiana in compagnia di grandi nomi del panorama culturale italiano. Tantissimi gli ospiti che rifletteranno sulla poetica di icone, musicisti e artisti: da Vasco Rossi a Lucio Dalla, e poi Raffaella Carrà. Proprio sulla figura della cantante e ballerina – che ci ha lasciati proprio lo scorso anno – si concentrerà la riflessione delle filosofa Selena Pastorino (ospite del festival sabato 30 luglio). Pastorino, partendo dalla figura di Raffaella Carrà, andrà ad analizzare le aspettative sociali che spesso vengono imposte sul corpo femminile, indagando il rapporto tra il corpo e la sua rappresentazione.
Raffaella Carrà ha in comune con altre donne una rappresentazione spesso viziata da qualcosa di simile a un’illusione ottica: come accade con Jane Fonda, per esempio, la sua figura viene frequentemente trivializzata, le sue idee e le sue qualità – intelligenza e determinazione tra le altre – offuscate. Sembra che nella narrazione comune non solo la complessità non sia contemplata, ma anche che leggerezza e valore siano mutualmente esclusivi. Questo accade a tutte le minoranze – minoranze non in senso numerico, ma nel senso di gruppi sociali non egemonici. Non a caso, la stessa Raffaella Carrà è, per usare un’espressione un po’ stantia ma esplicativa, “un’icona gay”. La liberazione del corpo è un tema quanto mai attuale e le comunità queer sanno bene quanto non sia possibile la liberazione senza il gioco, la provocazione, la leggerezza, insieme naturalmente al riconoscimento e all’azione del conflitto.
Il giudizio sull’aspetto fisico, infatti, posiziona le persone nel mondo e ha effetti molto concreti sulle loro psicologie e sulle loro vite. Per questo è tanto importante mettere sempre in discussione le proprie e altrui scorciatoie cognitive, quando si parla del corpo di una persona appartenente a una minoranza. Nel caso delle donne, grassezza e magrezza, presenza e distribuzione dei peli, colore e lunghezza dei capelli, scelte di abbigliamento e in generale relative alla propria presentazione, hanno un effetto diretto su opportunità lavorative, inserimento sociale, libertà personale. Su tutto questo abbiamo cercato di riflettere – anticipando alcuni temi della riflessione che la filosofa farà in occasione del festival Rocksophia – con Selena Pastorino.
Danza e filosofia: nella sua vita sembra risolversi una dicotomia che continuiamo a trascinarci dietro da troppo tempo, quella che oppone corpo e pensiero. Lo stesso binarismo segna la nostra concezione dei generi. Come comunicano tra loro queste dimensioni dell’esperienza umana? Sono davvero cose distinte?
Credo che quanto più si penetri a fondo nella conoscenza della realtà, che sia per tramite della filosofia o di altre discipline, tanto più risulta evidente come qualsiasi distinzione proviamo a imporle sia sempre limitata, provvisoria, condizionata. Questo non significa che distinguere diversi elementi nella realtà sia un errore, ma che lo è senz’altro considerare queste differenziazioni come se fossero essenziali e assolute. È una tentazione cui fatichiamo a resistere, perché abbandonarla implicherebbe ammettere che non possiamo comprendere in modo perfetto e definitivo la realtà che ci circonda e che noi stessi siamo. Soprattutto quest’ultima possibilità ci spaventa, perché ci priva del controllo che crediamo di avere su noi stessi. Proprio perché, in effetti, chiunque viva come essere umano sperimenta una certa limitazione della padronanza di sé, ogni volta che la ragione non riesce a imporsi sulle esigenze del corpo, nella cultura occidentale si è costruita una lettura dicotomica dell’umanità che letteralmente la taglia in due, distinguendo la concretezza del corporeo da un lato e l’immaterialità del pensiero dall’altro. È una concezione che ha sì permesso di riconoscere la natura composita dell’essere umano, ma che ha anche creato una gerarchia di valori che si ripercuote su ogni altra contrapposizione con cui leggiamo la realtà: da un lato si trova ciò che vale e conta – la mente, il maschile, etc. –, dall’altro tutto ciò che non può avere valore di per sé – il corpo, il femminile, etc. Nella nostra esperienza reale però queste distinzioni si mostrano presto o tardi limitate, provvisorie e condizionate, a partire proprio dal modo in cui viviamo il nostro corpo o, meglio, il corpo che siamo. In altre parole, siamo una complessità di dimensioni, non solo due, intrecciate tra loro, tutt’altro che incomunicanti: se riusciamo a prenderne atto o se viviamo esperienze che ci costringono a questa consapevolezza, possiamo trovare un punto di equilibrio per viverle meglio e per orientarci meglio, nonché per permetterlo anche alle altre persone.
Il corpo è senz’altro centrale nella pratica della danza e secondo una certa rappresentazione per essere credibili in questo campo è necessario addomesticare, domare, sottomettere e contenere il corpo – il che si traduce facilmente in una norma rigida che detta come un corpo dovrebbe essere. Ma è davvero necessario o ci stiamo perdendo qualcosa? Nella sua esperienza il controllo del movimento coincide necessariamente con la costrizione?
La danza, soprattutto classica, sembra suggerire che la pratica di questa disciplina sia possibile solo a prezzo di uno straordinario controllo su di sé, che permette di trascendere i limiti dell’umano e quindi del corporeo. Una conferma pare trovarsi nell’impostazione del corpo che, dall’extra-rotazione delle anche in fuori alla postura del busto, risulta distante da quello che consideriamo un atteggiamento naturale. Da un punto di vista storico esistono senz’altro momenti in cui questo è stato l’intento principale dell’espressione coreutica, basti pensare alle eteree silfidi ottocentesche, ma nello studio concreto della disciplina l’illusione del controllo coercitivo sul corpo viene meno passo dopo passo. Confrontarsi con il proprio corpo nella danza implica infatti che si accetti di lasciare al corpo stesso, alle sue capacità, alle sue potenzialità, alle sue idiosincrasie, il comando ultimo del gesto. La mente può solo accompagnarlo, sostenerlo, riorientarlo, ma non ha davvero la possibilità di cambiarne del tutto la realtà, di ristrutturarne la costituzione o di sottrargli la padronanza dei movimenti. In questo senso, studiare danza è un gran bagno di umiltà, da cui si impara anche che non si può semplicemente rovesciare il presunto dominio della ragione sul corpo, ma che occorre trovare una nuova alleanza, tra queste e altre, meno considerate, componenti della nostra persona e dell’ambiente circostante. Sono convinta che sia una lezione da mettere in pratica non solo qualora si danzi, ma ogni qual volta ci sentiamo attratti dall’idea di controllare i dettagli della nostra esperienza di vita. Anche perché è una pretesa del tutto impossibile a soddisfarsi.
Qual è il suo rapporto con la figura di Raffella Carrà? In quanto ballerina, in quanto filosofa e in quanto donna?
Essendo nata nella seconda metà degli anni Ottanta per me Raffaella Carrà è stata prima di tutto una signora della televisione italiana, vale a dire di un mezzo che esprimeva quella tradizione culturale alla base di un certo amore per lo status quo. Insomma, mi ci sono voluti anni per dipanare quel coacervo di rivoluzione gentile che la sua esperienza artistica ha rappresentato. Quando anche io sono riuscita a mettere da parte distinzioni, stereotipi e pregiudizi, ho scoperto la potenza di una figura capace di prendersi tutto lo spazio necessario alla propria persona e di trasmettere questo impulso a pretendere il centro della scena a tutti coloro che venivano contagiati dal suo ritmo pulsante. Nella danza Raffaella Carrà ha contribuito a costruire un immaginario che per molte persone è stato il primo approccio alla disciplina: un danzare gioioso, allegro, forte, senza regole se non quelle della propria persona, senza infingimenti e falsi pudori. Una danza onesta, che da sola trasmetteva tutto ciò che davvero conta in quest’arte, cioè l’autenticità. Attraverso i suoi movimenti Carrà viveva consapevolmente la sua libertà corporea e sottolineava questo messaggio con ogni mezzo, dalla scelta degli abiti e delle scenografie, al testo delle canzoni, al rapido movimento dei capelli, ribelli nel gesto ma sempre capaci di ritornare. In questo ha chiarito a ogni donna che può autodeterminare il suo corpo proprio a partire dal modo in cui vuole viverlo. Mi sembra una dimensione di prassi che la filosofia deve continuare a pensare per poterla continuare a supportare.
Cosa significa per lei la proposta di libertà che esprimeva il lavoro di Carrà, che valore assume oggi? In particolare, in relazione alla rappresentazione dei corpi e dei ruoli delle donne, come nei casi dei movimenti per la body positivity e la body neutrality.
Carrà ha posto il suo corpo al centro del proprio modo di presentarsi, il che ha implicato che si rafforzasse quell’attenzione che socialmente si tributa all’esteriorità. Da parte di uomini e donne ricevette moltissime attenzioni, di diverso segno, nei confronti del suo aspetto che, occorre dirlo come lei stessa lo ha fatto, era del tutto privilegiato rispetto ai canoni di bellezza occidentali. Eppure se si prova a comprendere la logica di questa attenzione al corpo come apparenza si vede con chiarezza quanto Raffaella Carrà abbia contribuito a smantellarla. Considerare le donne come semplici superfici corporee è frutto di una certa tendenza a riproporre quella dicotomia di cui si parlava sopra anche nei rapporti umani. Non solo quindi a un livello più teorico il femminile viene accostato al corpo ed entrambi così contrapposti al maschile e razionale, ma anche nella pratica quotidiana i corpi delle donne vengono trattati come materia inerte, priva di valore intrinseco, disponibile per le esigenze altrui come un semplice oggetto. Raffaella Carrà si è sempre imposta come soggetto, non ha mai ceduto di un passo dalla sua posizione di autonomia, letteralmente del darsi da sé le proprie regole e così impedire che altri si arrogassero questo diritto. Questa riappropriazione del corpo come agente e non passivo, che si riscontra in ogni aspetto della sua produzione, ha soprattutto saputo non essere autoreferenziale: piuttosto, è stata un’esperienza personale con potenziale politico. Se si imparasse a considerare questa libertà di esistenza dei corpi nello spazio e nel reale come costitutiva di ogni soggetto umano si sarebbe creato un ambiente in cui tutti i corpi possono liberamente essere, perché sono soggetti e non oggetti, persone e non forme.
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