Goffredo Buccini è inviato speciale ed editorialista del “Corriere della Sera“. È autore di vari romanzi e di saggi. Tra le sue ultime fatiche, Il tempo delle mani pulite e La Repubblica sotto processo. A lui abbiamo chiesto quale sia la sua opinione sulla riforma in atto.

Il divieto di pubblicazione delle ordinanze cautelari risponde all’esigenza dichiarata di arginare il circuito mediatico-giudiziario. C’è chi lo ritiene un enforcement del principio di presunzione di innocenza e chi, come la Federazione nazionale della stampa, lo definisce un bavaglio al diritto di cronaca. È davvero in pericolo la libertà di stampa nel nostro Paese?
Le parole sono importanti e prima di parlare di “pericolo per la libertà di stampa” dovremmo valutare con attenzione quello che stiamo dicendo. Non credo che in Italia la libertà di stampa sia minacciata. Il nostro Paese è stato caratterizzato a lungo dal sistema infernale delle conferenze stampa. Ci sono voluti anni per recepire il concetto di presunzione di innocenza, che pure è in Costituzione. Addirittura si è resa necessaria la spinta di una direttiva europea. Penso che questo provvedimento vada in questa direzione.

È vero, ma la disciplina che si va formando sembra comunque scontare un tasso di ipocrisia interna: vieta la pubblicazione dei contenuti dell’ordinanza, ma non impedisce la parafrasi della stessa. L’esito potrebbe essere potenzialmente più letale, non crede?
Noi giornalisti viviamo il mito delle carte, una specie di sacro Graal del giornalismo giudiziario. Sul punto, occorre fare un salto culturale. Non considerare la tesi della Procura, recepita dal gip nell’ordinanza cautelare, come verità rivelata, perché sappiamo che così non è fino al terzo grado di giudizio. Bisogna riequilibrare le tesi dell’accusa con quelle della difesa, poco importa se per sintesi, per estratto o integralmente. E per far questo è necessario riprendere a fare lavoro di inchiesta, costringendo il magistrato a correre dietro ai giornali, in parte invertendo il meccanismo odierno dei giornali che corrono appresso ai magistrati. Insomma occorre recuperare la funzione più alta e più nobile del giornalismo, che si è un po’ persa negli ultimi trent’anni, da mani pulite in poi.

Ritiene davvero percorribile questa strada? O il processo di informazione a senso unico, anche per comodità, si deve ritenere oramai irreversibile?
Credo che questo meccanismo sarà reversibile quando cambierà il clima politico del nostro Paese e quando si smetterà di usare la giustizia come una clava contro l’altra parte. Bisogna rasserenare il clima, perché il giornalismo risente del clima del Paese. Quanto più è barbaro il clima politico del Paese tanto più si imbarbarisce il giornalismo e viceversa. Ma credo di sì, che si possa cambiare.

In questa direzione, sorge una domanda un po’ più provocatoria: non pensa che la separazione delle carriere dovrebbe riguardare Procure e mondo dell’informazione, prima ancora che giudici e p.m.?
Questa è una bella battuta di Luciano Violante, che di questi temi se ne intende. Certamente il giornalista deve riacquisire una sua autonomia e una sua funzione professionale più piena, non a ricasco della una Procura. Tenete conto, però, che spesso ci sono anche dei meccanismi di identificazione. Se un giornalista lavora per molti anni dentro alla Procura della Repubblica a contatto con un PM, magari molto esposto, si identifica anche in termini ideali con quel Magistrato. Ma ciò è molto pericoloso, perché la nostra funzione è ovviamente quella di controllare i poteri, non solo il potere politico, ma i poteri in senso lato. Se c’è troppa identificazione, la nostra funzione viene meno.

Da quel che dice, e lo condividiamo, il cronista dovrebbe sganciarsi dalla verità rivelata dalla Procura e cercare di ri-costruire in autonomia ipotesi alternative, sensate ovviamente, capaci di interrogare la collettività e suscitare anche la curiosità del lettore. Perché nella prassi è così difficile?
Un grande inviato Tommaso Besozzi quando dovette raccontare la morte del bandito Giuliano, nel suo incipit scrisse: “L’unica certezza è che è morto”. Il nostro mestiere è quello di revocare in dubbio le versioni ufficiali. Ma attenzione, è molto difficile da praticare, perché se sei solo in mezzo alle correnti e al vento, senza un giornale e un direttore forte che ti appoggino, è molto complicato. Per tanti giornalisti, da una certa latitudine in poi, è anche pericoloso fare questo mestiere. Non dobbiamo dimenticare tanti colleghi, a cominciare dal mio amico Giancarlo Siani, che ci hanno lasciato la pelle. E Giancarlo era uno che non si accontentava della verità ufficiale del magistrato. Andava a cercare di suo. Ma a questo punto è necessario che aggiunga un dato ulteriore.

Prego.
Il vero oggetto del contendere sono le carte. E quelle carte ce l’hanno il pm, la polizia giudiziaria e gli avvocati. Ebbene, anche l’avvocato è spesso il ventre molle di questa catena. Non avete un’idea del tasso di disponibilità che c’è nella vostra professione, pur di avere un riconoscimento sul giornale e sulla televisione. In questa direzione c’è molto da fare. Io parlo di “triangolo”: magistratura, avvocatura e giornalismo. Ciascun attore dovrebbe affrontare nel proprio interno questi problemi. E noi, secondo me, dovremmo affrontarli con degli Stati generali del giornalismo. Avere il coraggio di parlarci francamente per prendere atto di ciò che non funziona. Anche voi, credo, dovreste fare altrettanto.

Anche perché la potenza distruttiva di questo meccanismo perverso si può spezzare solo con un salto culturale, recuperando la distanza sociale dai valori recepiti nella Costituzione.
Il richiamo alla Costituzione mi fa molto piacere, In genere mi appunto su due articoli: il 68 e il 54. Il primo venne mutilato nel 1993 per effetto della spinta di piazza di mani pulite. Eliminando l’immunità parlamentare di fatto venne consegnata la carriera di un parlamentare alle Procure della Repubblica. Io sono per la per la controriforma dell’articolo 68. La politica dovrebbe avere la capacità di riportare l’immunità parlamentare dentro la Costituzione. Ma potrà farlo solo rispettando l’articolo 54, che prescrive disciplina e onore a chi esercita le funzioni pubbliche. E non è questo il quadro dell’Italia contemporanea. Disciplina e onore non vuol dire soltanto non essere soggetti a un fatto penalmente rilevante. La nostra politica ha perso il senso dell’opportunità, la differenza tra ciò che è opportuno e ciò che è legittimo. Una differenza che era ben nota ai padri fondatori della Repubblica. Ecco, abbiamo parlato del “triangolo”, ma dobbiamo a questo punto parlare di un “quadrilatero”, perché c’è un altro angolo che quello della politica. Se la politica non ricomincerà a rispettare l’articolo 54 della Costituzione, io credo che non riusciremo – tornando al punto di partenza della nostra riflessione – a migliorare il livello di civiltà del nostro Paese.

Alberto de Sanctis - Francesco Iacopino

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