La distruzione dell'indagato
Il bavaglio giustizialista sulla presunzione di innocenza e la grossolana ipocrisia nelle ordinanze di custodia cautelare
La pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare è da sempre il grimaldello utilizzato per scardinare il tenue segreto che dovrebbe coprire gli atti di indagine. La riforma Orlando del 2017 ha solo avallato una prassi consolidata e sostenuta da interpretazioni dell’art. 114 c.p.p. nettamente sbilanciate sul versante della presunta libertà di stampa.
Il sistema, va detto, si regge su una grossolana ipocrisia: gli atti di indagine coperti dal segreto non sono di per sé pubblicabili, ma quando vengono riportati nell’ordinanza cautelare, ossia in quella che viene intesa come una cripto-condanna retta da una cripto-imputazione, magicamente si trasformano in notizie degne della pubblicazione integrale. Il giudice alchimista tramuta così l’indagine poliziesca in prova di colpevolezza ostensibile all’opinione pubblica.
Condanna anticipata
Il tutto senza che la voce della difesa possa trovare il benché minimo spazio. La pubblicabilità dell’ordinanza cautelare non è solo il comodo escamotage finora impiegato per abbattere ogni forma di segretezza investigativa, ma rappresenta, soprattutto, il portato naturale di una distorta concezione del processo che vuole definita l’intera questione penale già nella fase delle indagini: le prove sono solo quelle raccolte unilateralmente dagli inquirenti, la condanna si risolve nell’applicazione del carcere preventivo senza possibilità di difesa. Nella retorica del populismo giustizialista il processo finisce proprio con la decisione cautelare ed è fisiologico che a questo esito debba darsi la massima pubblicità.
Rivendicare la pubblicabilità
Non stupisce, quindi, l’accanimento di una ben precisa parte politica nel rivendicare la pubblicabilità di quella che è considerata la vera condanna, la tempestiva ed esemplare reazione al crimine adottata al di fuori di ogni regola basilare del giusto processo. Così come non stupisce l’invettiva contro la legge-bavaglio che vorrebbe semplicemente ricalibrare i rapporti fra presunzione d’innocenza e libertà di stampa. La proposta governativa di non pubblicare testualmente quell’atto che rappresenta il compendio ragionato di tutte le più rilevanti attività investigative, per di più avallate dal positivo apprezzamento del giudice della cautela, è solo un timido segnale in controtendenza rispetto alla vergognosa gogna mediatica alla quale sono esposti i detenuti in attesa di giudizio. Il nuovo bilanciamento di interessi privilegia il rispetto della presunzione d’innocenza quale condizione essenziale per il corretto esercizio della libertà di stampa. Cambia la prospettiva, l’informazione deve tener conto della natura provvisoria del provvedimento restrittivo e della parzialità delle conoscenze investigative che lo giustificano, limitandosi a dare notizia di quanto accaduto, ma senza l’enfasi della pubblicazione testuale di un atto che, per sua natura, non può e non deve rappresentare una condanna senza possibilità di smentita.
La distruzione dell’indagato
Chi invoca l’abusato refrain della legge-bavaglio non ha evidentemente a cuore la tutela della libertà di stampa, che nella sua essenza non viene minimamente scalfita, ma il sadismo giudiziario del processo circense in cui l’imputato soccombe senza possibilità di difendersi. Per non parlare degli aspetti di puro voyeurismo connessi alla pubblicazione di intercettazioni irrilevanti, magari attinenti ad aspetti della vita privata estranei al reato, ma ciò nondimeno maliziosamente riportate nel testo sacro della carcerazione preventiva. La distruzione morale della persona indagata va di pari passo con quella sociale e questo rituale di degradazione non ha nulla a che vedere con il diritto a informare e ad essere informati. La modifica dell’art. 114 c.p.p. non porterà né al bavaglio illiberale per la stampa né al cambiamento valoriale della cronaca giudiziaria. Il percorso verso la civiltà del processo penale è ancora lungo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.
© Riproduzione riservata